Come si misura la “felicità” delle persone? Con il denaro che possiedono, la salute, l’amore che vivono in famiglia? Nel sentire comune si dice: hai moglie e figli, dei soldi, un lavoro, la salute: non ti manca niente! Ma i tempi cambiano, la globalizzazione mette all’attenzione di politici e studiosi una pluralità di fattori diversi che influiscono sulla vita delle popolazioni. E così, per stilare un “Rapporto sulla felicità del mondo” (World Happiness Report) le cose si fanno molto molto più complesse. Prova ne sia che un gruppo di una decina tra i più qualificati economisti, statistici, scienziati del comportamento sociale si sono cimentati in questo studio per conto del Programma di Sviluppo Sostenibile dell’Onu. Ne è uscito un testo di quasi 180 pagine (clicca qui), curato da John Helliwell, Richard Layard e Jeffrey Sachs, con un intero capitolo redatto da tre studiosi italiani molto noti (tra l’altro tutti di area cattolica): Leonardo Becchetti, Luigino Bruni e Stefano Zamagni, che si sono occupati in particolare del supporto di tipo etico e comunitario al raggiungimento di livelli crescenti di felicità. Ebbene, occorre subito dire che l’Italia, che nell’edizione precedente del rapporto (2010-11) aveva totalizzato un punteggio di 6,748 su un massimo di 10, è “caduta” nel periodo 2012-14 al livello 5,948. Nella graduatoria mondiale si trova al 50° posto, dietro a Paesi quali – per fare degli esempi – Spagna (36°), Trinidad e Tobago (41°), Uzbekistan (44°), Corea del Sud (47°), Ecuador (48°), Bahrain (49°). Gli estensori del rapporto dicono che tra i vari Paesi che, a causa della crisi, hanno registrato le cadute più significative, proprio la Grecia e l’Italia sono tra quelli che maggiormente hanno sentito il “colpo”. La Grecia, addirittura, ha perso 1,5 punti e oggi si trova al 102° posto, sorpassata da diversi Paesi di Africa, Asia e America Latina.
Al nord e in Oceania il “top” della felicità. Prima di addentrarsi nei fattori che determinano questa curiosa gerarchia della “felicità” delle popolazioni, vediamo le zone alte della classifica. In ordine dal primo al decimo posto troviamo Svizzera (7,58), Islanda (7,56), Danimarca (7,53), Norvegia (7,52), Canada (7,43), Finlandia (7,4), Olanda (7,38), Svezia (7,36), Nuova Zelanda (7,286) e Australia (7,284). Come si vede sono quasi tutti Paesi “nordici”, esclusi i due Stati dell’Oceania la cui cultura e stile di vita è tipicamente occidentale e d’impronta anglosassone. Solo per citare qualcuno degli Stati che si collocano tra l’11° e il 50° posto, Israele è appunto undicesimo, gli Usa 15°, il Brasile 16°, gli Emirati Arabi 20°, la Germania 26°, Colombia 33°. Si comprende da questa graduatoria per molti versi sorprendente, che questo concetto di “felicità” non viene declinato principalmente a partire dalle condizioni economiche e del famoso Pil (Prodotto interno lordo), bensì entrano in gioco altri fattori. Sui 10 punti della graduatoria complessiva lo stesso Pil, infatti, in media non supera quasi mai il punto e mezzo (Lussemburgo, Singapore, Qatar e Kuwait i primatisti). Invece un fattore molto importante è considerato il “supporto sociale”, cioè la capacità comunitaria di assistere le persone, specie le più deboli, così da rendere la società accogliente, “inclusiva” come si dice oggi, generosa.
Gli altri elementi che creano buone condizioni di vita. Un terzo fattore di “felicità” è quello dell’aspettativa di vita, che per l’Italia è tra i più elevati (per fortuna!). Quarto fattore è la libertà di fare ciò che si desidera: cioè, in sostanza la resilienza della struttura delle singole società nazionali nel concedere spazi di libertà ai cittadini perché si esprimano in termini economici, politici, culturali, di creatività individuale, artistica ecc. Quinto fattore è la “generosità”.
L’Italia, che pure è tra le culle del solidarismo sia cattolico, sia social-comunista (cooperative, scuole popolari, ospedali, sindacati ecc.) non è ben attrezzata da questo punto di vista.
Le “charities” del mondo anglosassone sono molto più strutturate ed efficienti, oltre che riconosciute a livello pubblico, e questo incide sulla performance totale di un Paese rispetto a un altro. Altro elemento che gioca a sfavore dell’Italia è la “percezione della corruzione” e della malavita, capaci di condizionare intere aree di un Paese e bloccarne lo sviluppo. C’è poi un ultimo elemento, quello della “distopia”, che è – teoricamente – il contrario dell’utopia. In questo caso è la differenza tra le aspettative sociali complessive e quanto il Paese riesce a esprimere e realizzare nel suo insieme sotto il profilo politico-sociale. Anche in questo caso l’Italia esprime una sorta di rassegnazione ma non è tra i Paesi più negativi. Il punteggio finale, comunque sia, ci vede agli ultimi posti del primo “terzile” (entro i 50 Paesi). Dietro di noi, molto lontani, Paesi quali Burkina Faso, Afghanistan, Rwanda, Benin, Syria, Burundi, Togo. Sono nomi che ci dicono molto, considerate le guerre in corso, la grande povertà, il terrorismo, le carestie. Non dobbiamo lamentarci. Siamo comunque ancora un Paese “benestante”. Ma, certo, dispiace che lo “stivale” non sia più sinonimo di felicità. Un tempo lo era, ai primi posti nel mondo.