di Umberto Sirio
Mentre il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon e molte organizzazioni internazionali protestavano con il Governo dell’Indonesia, a causa dell’annunciata condanna a morte di nove persone – provenienti da Australia, Nigeria, Indonesia, Brasile, Ghana e Filippine – per reati legati al traffico di droga negli ultimi dieci anni, in un Paese che prevede la pena di morte per contrabbando, gli appelli dei vari Stati di provenienza sono stati inutili. Il solo che per il momento può sperare perché ritirato dalla lista delle esecuzioni imminenti, è il francese Serge Atlaoui, in attesa del verdetto sul suo ricorso presso il Tribunale amministrativo di Giacarta. Per lui l’intervento all’ultimo minuto del presidente, François Hollande, che ha minacciato ritorsioni diplomatiche, è stato importante. Per almeno due settimane Atlaoui, 51 anni, può ancora sperare.
La protesta internazionale. A parere di Human Rights Watch, il presidente indonesiano Joko Widodo “può dimostrare una vera leadership considerando la pena capitale come inaccettabile brutalità dello Stato e dovrebbe riconoscere che la pena di morte non è un deterrente, ma una punizione ingiustificabile e barbara”. Mentre la Francia minaccia serie conseguenze diplomatiche, Ban Ki-moon ha chiesto al presidente indonesiano di decidere una moratoria delle esecuzioni, che sarebbe in linea con la non applicazione della pena di morte degli ultimi anni – era stata sospesa a partire dal 2008 e ripristinata nel 2013 dal Governo in carica – ma gli è stato risposto che la droga è un’“emergenza nazionale”, il “cancro peggiore che affligge il Paese”. C’è anche da registrare una motivazione legata alla politica interna, in quanto l’applicazione della pena capitale consoliderebbe il potere presidenziale, crollato negli ultimi mesi: la maggior parte degli indonesiani vorrebbe addirittura estendere le condanne a morte nei casi di corruzione.
Un’ondata di esecuzioni capitali. L’escalation delle esecuzioni si è avuta a partire dal mese di gennaio di quest’anno, quando sono state fucilate sei persone: due donne, una vietnamita e un’indonesiana, e quattro uomini, di nazionalità brasiliana, olandese, nigeriana e del Malawi. Brasile e Olanda avevano rotto i rapporti diplomatici con l’Indonesia, richiamando i loro ambasciatori in segno di protesta. A febbraio, nonostante le proteste e le critiche della Chiesa cattolica – che lo scorso anno ha lanciato un piano pastorale per il recupero dei tossicodipendenti, chiedendo al Governo interventi nel campo della prevenzione e del contrasto al consumo di stupefacenti – si era proceduto ad altre otto esecuzioni.
Crocevia del commercio asiatico. L’Indonesia – che non è lontana dal “Triangolo d’Oro”, formato da Laos, Birmania e Tailandia, dove si produce il 30% dell’oppio a livello mondiale – è diventata passaggio obbligato del commercio di droga, con la conseguenza che, come ha rilevato un rapporto dell’Agenzia nazionale per il narcotraffico (Bnn), almeno cinque milioni d’indonesiani sono considerati “dipendenti”, a vario titolo. Questo avviene in un contesto, quello dell’Est e Sud-Est asiatico, dove negli ultimi anni si è sviluppato un florido mercato interno della droga – si pensi alla grande diffusione della metanfetamina, la sostanza psicoattiva il cui abuso produce il precoce invecchiamento nelle persone – e dove sarebbero detenuti complessivamente 300mila tossicodipendenti. In Indonesia la droga uccide 40 persone al giorno, in base alle stime del Governo, nel quale c’è anche chi teme che la questione droga possa influire negativamente sul turismo, che rappresenta una considerevole fonte di guadagno per il Paese.
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