Non c’è solo “Charlie Hebdo”. Anzi. Attraverso la satira si può leggere la storia di un Paese civile e, talvolta, la si può anche orientare. Scriveva Carlo Cattaneo che “la satira è l’esame di coscienza dell’intera società, è una reazione del principio del bene contro il principio del male; è, talora, la sola repressione che si possa opporre al vizio vittorioso. È un sale che impedisce la corruzione”. E se le cronache italiane sono infarcite di malcostume e corruzione, cionondimeno la storia del nostro Paese, perlomeno dal Risorgimento in poi, non può prescindere dal ruolo che hanno avuto vignette e pubblicazioni: da quelle dell’Italia liberale – come “L’Asino”, “Il Mulo” e “Il Becco Giallo” – alle prime pagine dei quotidiani nell’Italia repubblicana. Di “politica graffiata nei giornali italiani” si è parlato il 29 aprile all’Università di Parma con alcuni dei maggiori vignettisti italiani: Giannelli, Altan, Staino, Gino e Michele, Vincino e Fogliazza.
Barriera contro il torpore delle coscienze. La satira è una “solida barriera contro ogni tipo di estremismo, qualunquismo e torpore delle coscienze”, ha esordito Annamaria Cavalli, presidente del Dipartimento di lettere, arti, storia e società dell’ateneo parmense, che ha promosso l’evento. E se le radici affondano nel mondo classico, è dalla rivoluzione francese che la satira è divenuta “un’arma politica”, ha osservato Giorgio Vecchio, docente di storia contemporanea, ricordando che, per l’Italia, il “padre” della “satira in prima pagina” è stato Giuseppe Scalarini, che collaborò con “L’Avanti” dal 1911 (e, per le sue vignette, fu pestato, arrestato e mandato al confino durante il fascismo). “Nella prima metà del Novecento si è fatto un ampio ricorso alla satira politica, con vignette, manifesti e allegorie, con una pluralità di disegnatori e testate”, ha sottolineato il docente. Nel fascismo, invece, vi è stata una “satira di regime” che, per Vecchio, rappresenta “l’oscurità della vignetta, al servizio dei totalitarismi”, che nega la sua essenza di baluardo della democrazia.
Satira politica e di costume. Tra i disegnatori più prolifici e seguiti un posto di primo piano spetta indubbiamente aEmilio Giannelli, dal 1991 vignettista di punta del “Corriere della Sera” (dopo un’esperienza all’inserto satirico di “Repubblica”). Chiamato quotidianamente a raccontare con la sua matita gli avvenimenti, Giannelli osserva che “oggi si preferisce la satira politica, trascurando quella di costume”. “Eppure – aggiunge – quest’ultima contiene un messaggio che va oltre l’informazione quotidiana, più duraturo e importante rispetto a una satira politica il cui significato, spesso, muore dopo pochi giorni perché riguarda avvenimenti di seconda categoria. Certo, ci sono i grandi avvenimenti nei quali la satira politica deve prendere la supremazia. Ma molte volte ci si perde nella satira del piccolo pettegolezzo di retroscena politico che non varrebbe una vignetta”. Guardando al passato, “oggi tutto è accelerato e la fatica, anche della satira, è doppia”, avverte Fogliazza, parlando di “desolazione digitale” nella quale però “fare satira è quanto mai necessario per opporsi a un percorso degenerativo che appiattisce questo Paese”.
Quali limiti? Pensando alla satira è immediato il richiamo alla vicenda di “Charlie Hebdo”, anche se qui i pareri dei vignettisti divergono. “Per me – riflette Giannelli – c’è una libertà responsabile. Il metro della satira è l’utilità: l’offesa gratuita, che non ha nessuna utilità civica, è una vignetta inutile. Attaccare una religione per il puro gusto di attaccarla è sbagliato”. Mentre Gino e Michele difendono la “libertà irresponsabile” del giornale francese, convinti che satira e religione siano “estremismi” destinati inevitabilmente a scontrarsi. E Vincino chiede per la satira un diritto incondizionato di “massacrare i miti e le religioni”. Più prudente Altan, che ricorda come nell’Islam non esista una gerarchia, per cui “non è la stessa cosa raffigurare il Papa o Maometto”. “Non esistono limiti per la satira come non esistono per i libri e i film”, annota Sergio Staino, prendendo tuttavia le distanze da “Charlie Hebdo”, “giornaletto di provincia” nel quale “la maggior parte” delle vignette è di dubbia qualità. No, quindi, all’ipocrisia, pure a quella che ha portato ad assegnare al giornale francese il prestigioso premio Pen Club (“un premio – dice – che non si dà per solidarietà, ma va dato a un giornalismo serio”). Mentre Fogliazza – critico contro le vignette “fatte male e volgari” della testata francese – è convinto che “quando ci sono i contenuti non c’è bisogno di essere volgari”. E in quella vicenda “la satira – afferma – non c’entra niente, e neppure l’islam. Stiamo parlando di pazzi che fanno la guerra, alcuni in punta di matita”.