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Ai leader piace Twitter ma producono solo propaganda

Di Rino Farda

Twitter è diventato il “social” più usato dalla politica mondiale. Da Obama ad Ali Khamenei, è una specie di nuova corsa all’oro dove la posta in gioco sono i numeri dei “follower”, cioè delle persone che hanno deciso di “seguire” un politico invece di un altro. Questa nuova forma di politica mondiale giocata in 140 caratteri adesso ha anche un nome: la chiamano “Twiplomacy”, dalla contrazione di “Twitter” e “Diplomacy”.
Secondo uno studio pubblicato a Ginevra dalla società di pubbliche relazioni Burson-Marsteller, l’86 per cento degli Stati membri delle Nazioni Unite ha una presenza ufficiale su Twitter così come molti dei 172 capi di Stato, insieme con più di 4.100 ambasciate e ambasciatori. Un esercito diplomatico impressionante. Si tratta però di un’armata priva di un reale potere, fanno notare gli analisti della Burson-Marsteller. Mancanza di trasparenza nell’ingaggio dei “follower” e scarsa (se non nulla) efficacia di alcune delle campagne di moral suasion più “twittate” degli ultimi mesi, sono le due debolezze più vistose del sistema.
Il presidente ucraino Petro Poroshenko nel 2014 ha registrato il trend di crescita più vistoso dei propri “follower” ma a marzo la cifra ha iniziato a scendere in modo significativo. Secondo gli autori del rapporto è più che giustificato il dubbio sulla reale trasparenza delle dinamiche d’ingaggio dei “follower” del leader ucraino. Il Governo indiano, per esempio, ha messo in piedi un vero e proprio piccolo esercito per “ritwittare” i propri messaggi al fine di renderli più “popolari” di quanto siano in realtà. In altre parole, grazie a Twitter cresce il rumore e la propaganda ma non la trasparenza, dicono alla Burson-Marsteller. Si tratta di un fattore che finisce per indebolire anche la forza di “moral suasion” di certe campagne di propaganda internazionale.
Quando a marzo dello scorso anno il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti lanciò la campagna #UnitedForUkraine, come segnale di solidarietà con Kiev contro l’ingerenza russa in Ucraina orientale, il ministero degli Esteri russo ha rapidamente messo in campo un’altra campagna su Twitter di segno opposto. A distanza di dodici mesi nessuna delle due campagne, la russa e l’americana, sembra aver prodotto segni tangibili. Era successo lo scorso anno anche con il movimento #BringBackOurGirls, una campagna virale di straordinario successo per numero di follower e di retweet ma che non è riuscita a fare nulla per liberare le studentesse rapite da Boko Haram in Nigeria.
Rimangono così solo le classifiche dei leader mondiali più seguiti. Barack Obama fu il primo politico mondiale ad iscriversi a Twitter (era il 5 marzo del 2007 e lui era ancora un senatore) e rimane ancora oggi il leader più seguito. Al secondo posto c’è Papa Francesco, una posizione impressionante soprattutto per il ritmo di crescita: il Vaticano infatti ha scelto i social molto tempo dopo Obama. Al terzo posto c’è il primo ministro indiano Narendra Modi. Molto attivo è anche il leader iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei, che utilizza regolarmente Twitter per i suoi slogan antiamericani. Lo ha fatto anche in queste ore, commentando gli scontri razziali a Baltimora.
Non tutti i leader, però, hanno aderito alla nuova moda della “twiplomacy”. Fra gli assenti più illustri il presidente cinese Xi Jinping, il leader della Corea del Nord, Kim Jong-un e il cancelliere tedesco Angela Merkel. La Cina, inoltre, è l’unico Paese del G20 senza una presenza ufficiale su Twitter. La “twiplomacy”, dicono gli esperti della Burson-Marsteller, è utilizzato soprattutto come uno strumento di propaganda. L’obiettivo dei “tweet” è sempre stato quello di stabilire un rapporto di dialogo, una comunicazione a due vie. I politici mondiali, invece, raramente rispondo ai commenti dei loro follower. Si tratta di un modo distorto e comunque limitato di usare le nuove possibilità offerte dagli strumenti “social” della comunicazione politica, dicono gli analisti.

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