La responsabile di un’agenzia di collocamento di una città del Nord raccontava dell’ennesima richiesta di un lavoro che, come caratteristica principale, avesse quella del tempo ridotto, da 4 a 6 ore al giorno: “Moltissime di queste richieste mi arrivano da donne che lavorano già, ma che non ce la fanno più a sopportare ritmi e tempi lavorativi inconciliabili con la vita privata, con la famiglia”. Disponibili insomma a guadagnare di meno pur di lavorare di meno.
Una contraddizione con l’Italia del 12,7 per cento di disoccupati? Con quei due milioni di italiani che non cercano più un’occupazione e nemmeno una particolare qualificazione professionale? No: è il risultato di un mondo del lavoro fermo a metà del Novecento, quando pian piano si passò dalle 48 alle 40 ore lavorative a settimana. Buona parte della giornata passata nel luogo di lavoro. Questo, nell’era di internet, del telelavoro, della tecnologia che abbatte tempi e distanze, insomma di un lavoro che non abbisogna più della scrivania fisica, del cartellino timbrato. Quanto, piuttosto,di risultati.
Certo, ci sono ancora le fabbriche, il lavoro fisico. Ma per un nuovo contratto Fiat che razionalizza pure le pause, esiste in moltissime aziende del manifatturiero italiano la necessità di una maggiore flessibilità degli orari da parte delle stesse aziende, che hanno picchi produttivi e momenti di stanca.
Ci vorrebbe insomma una rivoluzione culturale che porterebbe un indubbio beneficio pure ai tassi di occupazione. La diffusione sistematica ed intelligente del part time – e comunque di orari flessibili – ci avvicinerebbe alla situazione olandese, che mostra appunto un alto tasso di occupazione con una rilevantissima percentuale di part time. Se incentivato, il tempo parziale creerebbe molte nuove occasioni di lavoro per chi – per varie ragioni – preferisce appunto questa conciliazione tra lavoro, tempo libero e reddito. O per chi potrebbe entrare per la prima volta nel mondo del lavoro, facendo esperienza e aspettando l’occasione di un’occupazione full time.
D’altronde, per mirare ad una piena occupazione o comunque a quella percentuale (il 4%) di disoccupazione considerata dagli economisti “fisiologica”, occorre muovere tutte le leve disponibili: dallo sgravio contributivo voluto dal governo Renzi, ad una formazione professionale più mirata; dagli investimenti pubblici in dotazioni infrastrutturali, al ritorno a casa delle (troppe) aziende italiane delocalizzate all’estero. Dalla progressiva stabilizzazione del precariato fino ad una contrattazione che deve passare sempre più dal livello nazionale a quello aziendale.
Tutto deve far brodo; non dimentichiamo che stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica che ha una terribile caratteristica: distrugge molti più posti di lavoro di quanti ne crea. È il paradosso-Kodak, l’ex multinazionale della fotografia che ebbe anche 140mila dipendenti. Ora Kodak non esiste più, e la sua erede digitale Instagram è conosciuta in tutto il mondo ma dà uno stipendio a poche decine di persone.
Sarà quindi un’impresa arrivare a quel 4% di disoccupazione che nemmeno un’economia ricca e dinamica come quella statunitense riesce a raggiungere. L’ambizioso obiettivo per l’Italia è di creare nei prossimi anni quel milione di nuovi posti che furoreggiava alcune campagne elettorali fa: questa è una cifra che farebbe la differenza. Ma tutte le leve che potrebbero sollevare l’occupazione a questo livello non si muoveranno di molto, se prima lo Stato non toglierà il vero macigno che blocca la strada: i pesanti oneri che gravano il costo del lavoro (e foraggiano la spesa pubblica).
Raccontava un imprenditore comasco che la sua più grande preoccupazione è di vedersi scippare il personale dai concorrenti svizzeri, a qualche chilometro di distanza. Ad uguale stipendio lordo, lì il netto lievita considerevolmente. E stiamo parlando di Svizzera, non di Vietnam…
0 commenti