È un messaggio che non ha confini. Vale per quelle Regioni in cui la raccolta differenziata è ancora un miraggio; nelle città d’arte in cui patrimoni millenari sono lasciati andare alla deriva da amministratori o burocrati distratti; vale dinanzi alle alluvioni di Genova in cui ci mettono una pezza gli studenti e i volontari; vale a Roma, capitale splendida, purtroppo segnata da continui eventi che ne moltiplicano traffico e rifiuti sui marciapiedi e da turisti che dimenticano la buona educazione… Un discorso che funziona per le spiagge adriatiche o joniche, per i sentieri di montagna, per gli scavi archeologici, per la laguna di Venezia. Il bello è bello se lo si preserva. Una città è vivibile se ciascuno – anziché aspettarsi la prima mossa dagli altri – si dà da fare per sé, per i propri figli, per la comunità in cui vive.
Un dato è acclarato: anche se lo volessero e potessero (per ragioni di bilancio), le istituzioni non potrebbero arrivare dappertutto. E poi per raccogliere le cartacce per strada o per spalare la neve dinanzi al condominio non c’è bisogno del via libera del Sindaco o del Premier!
Ciò che qualcuno si ostina a chiamare “arte italiana dell’arrangiarsi” in realtà corrisponde a una piccola dote innata, finora trasmessa di nonno in padre e in figlio, di nonna, in madre e in figlia: si tratta di rimboccarsi le maniche per vivere un pochino meglio. Si potrà forse parlare di “volontariato civile” (che non deve peraltro supplire indefinitamente alle carenze del “pubblico”), di “senso dello Stato” che parte dalle piccole cose. Tutto vero. Ma, più semplicemente, si tratta di riprenderci le nostre città e, se occorre, armarsi di ramazza e secchio perché non abbiano la meglio le forze che remano contro il Belpaese.