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L’Italia in ritardo nel consumo di farmaci generici

Giovanna Pasqualin Traversa

Sono assolutamente equivalenti ai farmaci di marchio, ma nel nostro Paese non riescono a “sfondare”. Si tratta dei farmaci generici (o equivalenti), che ad oggi rappresentano poco più del 13% della spesa farmaceutica di classe A e il 30% delle vendite complessive di farmaci a brevetto scaduto. Eppure la loro diffusione – costano almeno il 20% in meno del farmaco originatore (in inglese “originator”) – genererebbe significativi risparmi sia per lo Stato, sia per i cittadini. Ma al momento dell’acquisto gli italiani preferiscono il “marchio”. Scarsa informazione? Mancanza di fiducia nella perfetta sovrapponibilità degli uni agli altri? Un fenomeno tutto italiano perché in Germania e nel Regno Unito, ad esempio, il consumo dei farmaci è equamente ripartito fra le due tipologie, e in Francia e Spagna i generici coprono, rispettivamente, il 30% e 40% del mercato. Per non parlare dei Paesi scandinavi dove si arriva addirittura al 75%, ma si tratta di un mercato nel quale i generici hanno fatto ingresso già negli anni Settanta, mentre in Italia le prime società di farmaci equivalenti e i primi prodotti registrati risalgono ai primi anni Duemila. Un ritardo compensato solo in parte dall’accelerazione impressa nel 2012 con il decreto Balduzzi, che ne ha modificato il sistema di prescrizione facendo obbligo al medico di indicare, per le patologie acute, il farmaco con il nome del principio attivo, non della specialità farmaceutica (anche se nelle patologie croniche questo resta facoltativo).

Risparmio per i cittadini e per lo Stato. E proprio di farmaci generici, contenimento della spesa farmaceutica e potenzialità di crescita industriale si è parlato il 5 maggio a Roma, presso la sala capitolare del Senato, in un incontro promosso dall’Associazione nazionale industrie farmaci generici (Assogenerici) nel corso del quale è stato presentato lo studio di Nomisma “Il sistema dei farmaci generici in Italia. Scenari per una crescita sostenibile”. Se i pazienti sostituissero tutti i medicinali utilizzati con i rispettivi generici al prezzo più basso, “sarebbe possibile ottenere oltre 1,4 miliardi di euro l’anno di risparmi privati”, mentre il risparmio pubblico ottenibile semplicemente “grazie al processo di ‘genericazione’ sarà di oltre 1,1 miliardi di euro tra il 2015 e il 2020”, arco di tempo in cui “andranno in scadenza brevettuale prodotti che valgono, a livello nazionale, oltre 2,1 miliardi”, osserva Federico Fontolan, della società di studi economici che ha realizzato l’indagine. Gli esiti del mercato sono influenzati, nell’ordine, dai comportamenti di medici, farmacisti e pazienti. Per questo, avverte, occorre anzitutto colmare il “vuoto informativo” tra medico e produttori di generici.

Rilancio industria e aumento occupazione. Enrique Häusermann, presidente di Assogenerici, auspica la revisione dei “meccanismi di pay-back” e l’eliminazione del patent linkage (collegamento tra durata del brevetto del farmaco originatore, autorizzazione all’immissione in commercio del generico e riconoscimento della sua rimborsabilità da parte del Ssn, ndr). “Promuovere il ricorso a farmaci equivalenti e biosimilari – sostiene – non è soltanto funzionale ai legittimi interessi di un settore produttivo, ma rappresenta un elemento chiave per conciliare tutela della salute e compatibilità di bilancio, rilancio dell’economia e welfare, concorrenza e salvaguardia dei diritti del cittadino”. I numeri di Nomisma parlano chiaro: una politica che rimuovesse gli ostacoli che ancora frenano il settore “potrebbe determinare un aumento del turnover industriale nazionale fino a 540 milioni di euro circa, con un aumento dell’occupazione fino a quasi 20mila addetti aggiuntivi tra settore produttivo e indotto”.

Formare i medici e informare i cittadini. Prioritario, tuttavia, anche indirizzare la prescrizione dei farmaci verso una maggiore “appropriatezza”. Scandisce Maurizio Scassola (Federazione nazionale ordini medici chirurghi e odontoiatri): “I generici sono un aspetto del problema, ma la questione più grave è quella dell‘appropriatezza della diagnostica e della prescrizione delle cure”. Sulla stessa linea Luca Degli Esposti, esperto di economia sanitaria: “Avere farmaci che costano meno non è un buon motivo per prescriverli quando non ne sussistono le indicazioni”. Chiamati in causa ancora una volta i medici con riferimento, in particolare, ai sartani a brevetto scaduto, agli inibitori della pompa protonica (gli antiulcera), agli antidiabetici. I medici vanno inoltre formati “sui percorsi ‘autorizzativi’ dei generici inserendo nelle schede i dati sui percorsi di equivalenza”, chiosa Fabrizio De Ponti (Società italiana farmacologia), secondo il quale occorre anche informare e rassicurare i cittadini sull’efficacia di questi farmaci e sul fatto che tutta la produzione avviene in Italia. Per Emilia Grazia De Biasi, presidente Commissione igiene e sanità Senato, il farmaco generico sconta anche “la mancanza di una normativa omogenea sul territorio nazionale”.

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