L’Italia fatica ad uscire dalla crisi e a riagganciare la crescita. I motivi del ritardo sono molteplici ma forse uno risiede nel “capitalismo di relazione” di cui ha parlato nei giorni scorsi il premier Matteo Renzi, incontrando alla Borsa di Milano gli esponenti delle imprese quotate. Su questo argomento abbiamo intervistato l’economista Leonardo Becchetti docente all’Università Roma Tor Vergata.
Cosa dobbiamo intendere per “capitalismo di relazione”?
“Dietro questa definizione c’è l’idea di gruppi di controllo di grandi aziende dove nei Consigli di amministrazione siedono sempre le stesse persone, che hanno incarichi di consiglio in altre 10-15 società. È chiaro che così si viene a creare un network chiuso, dove i presenti limitano l’afflusso di nuovi ingressi nel capitale azionario delle aziende italiane”.
In questi casi la parola “relazione” ha quindi un’accezione decisamente negativa?
“Sì, nel senso che va a favorire posizioni di rendita a scapito di altri soggetti. Basti pensare alla collusione oligopolistica, alle associazioni che promuovono i benefici dei propri aderenti a scapito degli esterni fino alle organizzazioni mafiose che portano questo utilizzo perverso della relazione all’estremo. L’accenno di Renzi si rivolge in questo ambito a quelle relazioni e quegli intrecci opachi tra grandi gruppi economici e finanziari che hanno per molto tempo caratterizzato il ‘salotto buono’ del nostro paese”.
Come è possibile regolamentare le “relazioni” economiche?
“È chiaro che ci vogliono delle regole per evitare le cattive relazioni ma ci vogliono anche le relazioni, perché è sbagliata l’idea di un’economia fatta solo di regole. Del resto in economia quando le persone si incontrano vivono spesso una asimmetria informativa e senza garanzie contrattuali complete. A quel punto o c’è la sfiducia, oppure al contrario scatta la cooperazione: e quindi 1+1, se c’è fiducia, non fa 2 ma 3. Si parla di ‘superadditività’, nel senso che questo scambio reciproco di fiducia è alla base della fertilità economica e sociale. Si va oltre i limiti delle regole, c’è una reciprocità diretta e si mette in moto il ‘capitale sociale’ produttore di quelle virtù che muovono positivamente il mercato e la società tutta”.
Ma come si capisce se una relazione (in economia) è positiva o no?
“Il concetto di relazione è ambivalente. Ci può essere una ‘buona’ o una ‘cattiva’ relazione. La cartina di tornasole, come ha spiegato Mounier, consiste nel verificare quale effetto avrà tale relazione non nei confronti di chi la vive, ma verso i ‘terzi’. Arriviamo infatti all’estremo delle relazioni mafiose che producono effetti favorevoli a chi le intraprende ma creano danni gravissimi agli altri”.
Siamo abituati a diverse forme di “relazioni” economiche. Basta pensare alle imprese familiari, artigianali, commerciali, alle piccole industrie, a quelle grandi, e poi all’arrivo dei fondi di investimento, il private equity, il venture capital, fino ai “fondi sovrani” di paesi quali Cina, Arabia, Emirati ecc. Come misurare queste diverse “relazioni” ai fini della loro bontà o meno?
“Basta che ci poniamo la domanda su quale obiettivo hanno. Ciò vale per l’impresa familiare fino al grande fondo sovrano. Dobbiamo fare in modo che le imprese, qualunque esse siano, al minimo non siano dannose per il resto della società; meglio che abbiamo assunto una loro politica aziendale socialmente utile, rispettosa dell’ambiente. Si parla allora di ‘responsabilità sociale d’impresa’. Quindi anche se trattiamo di grandi o grandissime aziende, non conta tanto la dimensione, quanto se sono orientate alla responsabilità sociale oppure no”.
La dottrina sociale della Chiesa è all’altezza di queste sfide economiche e culturali?
“Assolutamente sì. Sta evolvendo moltissimo, basti pensare alla ‘Charitas in veritate’, a ‘Evangelii gaudium’ o al Compendio della dottrina sociale, tutti testi scritti dopo l’avvento della ‘globalizzazione’. Tale dottrina ha una pregnanza e importanza fondamentale, riconosciute a livello mondiale da credenti e anche da non credenti”.
Quali contenuti deve avere questa “economia civile” o altrimenti detta “economia sociale di mercato”?
“Parliamo di economia sociale di mercato o civile a ‘quattro mani’ e non a ‘due mani’, per indicare che la somma degli interessi di cittadini e imprese si trasforma in bene comune, per la presenza non solo della mano del mercato e di quella delle istituzioni. Queste due ‘mani’ da sole non ce la fanno. Occorrono le altre due ‘mani’ dei cittadini responsabili che ‘votano con il portafoglio’ e delle imprese responsabili. Questa realtà in parte già esiste. Pensiamo al commercio equo e solidale che occupa il 20-30% dei supermercati, alla finanza etica e ai fondi di investimento etici, anche loro al 30%. La sfida è che questa economia divenga maggioranza e un sistema condiviso da tutti. Il modello solo a ‘due mani’ distrugge invece di produrre virtù sociali. E senza virtù il mercato non funziona”.
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