TORINO – Scienza, umanesimo e passione: tre dimensioni ricchissime che rimandano a vissuti e discipline differenti, e che tuttavia, ad una riflessione più attenta, potrebbero addirittura sembrare imprescindibili ed inseparabili tra loro, sintetizzate in un’unica realtà: l’uomo che fa ricerca.
Da questo punto di vista, dunque, la scienza, disciplina del rigore e dell’oggettività, non parrebbe così asettica, così neutrale: come potrebbe, infatti, prescindere da colui che conduce la ricerca, dallo scienziato che porta nel suo laboratorio, oltre alla strumentazione necessaria, anche il proprio credo, i propri presupposti filosofico-esistenziali e la sua passione? È in fondo quella passione a muoverlo nella sua attività, a fargli superare le difficoltà e gli ostacoli, apparentemente insormontabili che incontra, conducendolo fino all’esplorazione dello spazio.
Se così non fosse, se tra la scienza e l’uomo che fa scienza dovesse mantenersi assenza di influenza e relazione, si dovrebbe allora ammettere che la scienza è una disciplina neutra, meccanizzata, indifferente, in cui lo scienziato si limita a verificare ed interpretare i dati scientifici secondo protocolli impersonali.
È lecito, dunque, domandarsi: la dimensione personale dello scienziato, dell’uomo che fa ricerca, si riflette sulla sua attività? Quale rapporto esiste tra la scienza e l’uomo di scienza, quale fecondità, quali ripercussioni? In breve: potrebbe dirsi che la scienza ha un’anima, e che questa ha a che vedere con l’animo di chi la realizza?