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In Asia il lavoro è incatenato dallo sfruttamento

Di Umberto Siro

È di questi giorni l’annuncio di un’impresa cinese relativo alla costruzione in soli 19 giorni lavorativi di un grattacielo di 57 piani a Changsha, nella Cina centrale: ha 19 sale, 800 appartamenti e uno spazio uffici per quattro mila persone. Sulla scia del successo, l’impresa ha annunciato di voler costruire in 3 mesi un grattacielo di 220 piani, il più alto del mondo. D’accordo che soluzioni tecnologiche all’avanguardia – come quelle che vengono adottate in Cina – aiutano, ma questi risultati stupefacenti non sarebbero possibili senza un uso spregiudicato della forza lavoro.

Le condizioni dello sfruttamento.
Come ha documentato il dossier diffuso di recente dalla Caritas, intitolato “Lavoro dignitoso per tutti. Disoccupazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù ledono i diritti umani fondamentali”, lo sfruttamento del lavoro non è un fenomeno solo cinese, ma è esteso in tutta l’Asia. “È sfruttamento – precisa il dossier – pagare poco i lavoratori, farli lavorare un numero di ore sproporzionato, non permettere la formazione dei sindacati, non fornire condizioni di lavoro salubri, favorire o attuare la tratta di essere umani, indurre alla prostituzione, impiegare forza lavoro minorile, tormentare (fisicamente e mentalmente) il personale sul posto di lavoro, minacciare e “dare per carità quello è che dovuto per giustizia”. Vengono analizzati: lo sfruttamento del lavoro minorile in India; il problema dei lavoratori del tessile in Bangladesh; l’industria dello sfruttamento sessuale in Thailandia e la tratta dei migranti in Sri Lanka.

India e Bangladesh. Ad essere maggiormente colpiti in India sono i minori: sono 5,8 milioni i bambini che lavorano, ma il fenomeno è esteso in tutta l’Asia del Sud, dove sono 16,7 milioni i bambini tra i 5 e i 17 anni coinvolti. All’inizio del millennio, i settori di impiego erano cosi suddivisi: lavorazione di foglie di betel e sigarette (21%), edilizia (17%), lavori domestici (15%) e tessitura (11%). Oggi, è aumentata la percentuale di chi è impegnato nei lavori domestici. Il Bangladesh è segnato dallo “sfruttamento selvaggio della base lavoratrice”: i lavoratori del settore tessile sono quasi 5 milioni, con l’85% di sesso femminile; la paga minima è fissata a circa 62 euro al mese. La maggior parte dei lavoratori vive sotto la soglia di estrema povertà e “il godimento di dividendi a molti zeri – denuncia il dossier – è riservato ai proprietari delle aziende, alle grandi firme occidentali e agli amministratori e politici corrotti”.

Thailandia e Sri Lanka. Dramma della Thailandia sono la prostituzione e i minori sfruttati per il turismo sessuale. Si stima che l’introito economico annuale si aggiri intorno 6 miliardi di euro, il 10% del Pil del Paese: comprende il gettito proveniente dalla clientela domestica – con circa il 90% dei maschi sessualmente attivi che hanno pagato almeno una volta nella vita servizi sessuali a pagamento – e del turismo sessuale. Lo Sri Lanka deve la sua sopravvivenza economica alle rimesse degli emigrati, che ammontano a 5,1 miliardi di dollari nel 2011 e 6 miliardi nel 2013. Un importo equivalente all’8,2% del Pil, al 25% delle entrate pubbliche totali e al 35% di valuta estera totale. Il dossier evidenzia che la manodopera meno qualificata emigra principalmente verso i Paesi arabi e qui spesso viene sfruttata ad opera di connazionali e locali. Gli sfruttatori, con promesse di falsi impieghi, usano i migranti per lavori sottopagati, limitando la loro libertà di movimento, sequestrando loro il passaporto, abusandone sessualmente, minacciando le famiglie nel Paese d’origine e i lavoratori stessi e alcune donne sono indotte alla prostituzione in Giordania, Singapore e Maldive. Nel 2013 sono state registrate 298 morti di migranti all’estero.

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