Tutte le generazioni – “bianche” e non – gli devono la vita. Non solo per il modo di intendere il blues e per come suonare la chitarra elettrica, nel suo caso la mitica Lucille, una Gibson ES 335 dal suono particolare, grazie anche a delle aggiunte tecniche: pieno, “circolare” e nello stesso tempo capace di note staccate, ritmi spezzati.
Se i Rolling Stones hanno scritto inni alla devianza giovanile come Satisfaction e tenere ballate come Lady Jane, lo dobbiamo anche a lui. E anche Clapton gli deve molto, soprattutto perché passò i suoi anni d’apprendistato, direbbe Goethe, a rifare gli assoli chitarristici del grande padre.
BB come Blues Boy, il ragazzo tutt’uno con il blues, che aveva iniziato come raccoglitore di cotone pagato 35 cent per ogni cento libbre, e che poi aveva scoperto, cantando i gospel, di essere dotato di voce e tecnica, se ne è andato a 89 anni di notte, dopo aver insegnato il blues, e che altro se no, a tutti i chitarristi che hanno calcato le scene dai Sessanta agli Ottanta e anche oltre. Il lungo assolo di Alvin Lee, chitarrista dei Ten Years After, a Woodstock, ad esempio, non sarebbe mai stato immaginabile senza quegli assoli con note allungate, lente, talvolta solenni e assertive, lancinanti che sembravano lamenti di gente povera e abbandonata che aveva solo quella voce per farsi ascoltare. Uno dei paradossi del mercato musicale è che il suo successo più universale, quello che lo fece conoscere a tutti, pure ai ragazzini che non lo avevano mai ascoltato, quello che lo scaraventò in cima alle classifiche specialistiche tra il 1969 e il ’70, “The thrill is gone”, non era suo, ma di Roy Hawkins e Rick Darnell, che lo avevano portato al successo già nel 1951. Però quella canzone, suonata da e con Clapton, Steve Winwood, Keith Richards, Jeff Beck, Aretha Franklin e altri mostri sacri divenne l’icona del grande bluesman, forse perché il testo era un invito a rimuovere tutte le paure, tutti i sentimenti negativi, i ricordi di amori infelici e di storie di miseria e disperazione.
Lo spiritual e il gospel alla base della sua arte gli hanno fornito gli strumenti culturali e lui a sua volta ne ha fatto una sorta di manifesto implicito della sua produzione. Perché tutta la vera letteratura pop che ne è venuta dopo, dai Beatles fino ai Genesis non ha potuto non incorporare dentro i suoi messaggi quella grande apertura al sociale che uno come B.B. King rappresentava. Se nei testi dei Rolling Stones la rabbia era diventata non più uno scandalo per il borghese benpensante, ma un monito a capire la rabbia di chi veniva dai ghetti e dagli slums, era perché dai grandi bluesmen era passato il messaggio che canto non era solo amoretti e balli di gruppo, ma anche rivendicazione.
King ed altri avevano mostrato quella strada. Il gospel e lo spiritual avevano insegnato che dalla religione – erano gli anni di Martin Luther King – dalla Bibbia, dalle marce dei diseredati potevano venire armi affilate e non consolatorie contro la discriminazione razziale.
Lo stesso Honky Tonky Woman, che parla di prostitute, poneva sul palco quel problema e tutto ciò che vi si nascondeva dietro. Con il ragazzo del Blues si spegne una stella non solo del blues, una radice solida che ha fatto germogliare decine di piante destinate a diventare gli alti alberi della musica, e della letteratura, del Novecento e oltre. Non si farà però molta fatica a ricordarlo, perché in molti assoli distorti e lancinanti di chitarristi elettrici sarà naturale ritrovare la grande mano del maestro, in mano al quale Lucille gridava al mondo i dolori della gente di colore che per sopravvivere raccoglieva cotone nei campi dei latifondisti. Lui poteva cantare il blues delle schiene spezzate che bevevano per dimenticare il dolore del corpo e dell’anima. Lui poteva, era autorizzato dalla sua vita a farlo, cantare il passaggio del mar rosso della gente nera che dal gospel prendeva la speranza di vedere un giorno la terra promessa.
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