È trascorso un secolo. Domenica prossima, 24 maggio, ricorderemo i 100 anni dall’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale. Ci potranno essere molti modi per celebrare quella data. L’importante è non perdere di vista il senso che essa ebbe per le nostre popolazioni.
Già da un anno i giovani goriziani erano partiti per il fronte orientale, verso terre sconosciute che li avrebbero in troppi casi inghiottiti per sempre: ai loro cari rimaneva solo la speranza in un ritorno che per molti si sarebbe ben presto trasformato solo in illusione. Un destino, però, ancora più crudele li attendeva: i “vincitori” imposero sulla memoria dei “vinti” la polvere dell’oblio forzoso. I loro nomi non erano degni di essere incisi su nessuna lapide: una “damnatio memoriae” che solo da poco tempo – ma ancora con tanta fatica – si sta scalfendo restituendo a quei militari l’onore che meritano.
Quel 24 maggio l’inutile strage, con tutta la sua violenza e la sua scia di devastazione e di lutto, divelse le porte e piombò nelle case dei goriziani ma anche dei cormonesi o dei gradesi… Quello che sino ad allora era stato confine divenne, tragicamente ed improvvisamente, fronte.
E furono i bombardamenti, le migrazioni forzate, le deportazioni, le violenze…
Fu la fine dei sogni di una generazione d’italiani e austro-ungarici, cattolici e ortodossi, musulmani ed ebrei: la brama di potere dei governanti e l’ambizione dei generali avrebbe impedito all’oggi di quei giovani di divenire domani, facendone vittime sacrificali nelle trincee del Sabotino o nelle pietraie del Carso. Il destino, nella sua tragicità, univa quello che le uniformi militari facevano apparire diverso, beffando la presunzione di onnipotenza degli uomini.
Ed anche chi riuscì a salvare la vita ebbe, comunque, il futuro lacerato per sempre dal filo spinato dei campi di battaglia.
Non sarebbe bastato il 4 novembre di tre anni dopo a richiudere le ferite che quel 24 maggio si aprivano. Ferite penetrate nel profondo dell’animo di intere popolazioni e che avrebbero condotto l’Europa ed il mondo, poco più di un quarto di secolo più tardi, ad un nuovo, devastante conflitto.
Per ricordare il 24 maggio 1915 forse è necessario ripartire proprio dalle parole pronunciate da papa Francesco: “La pace è un lavoro, non è uno stare tranquilli”.