È un accordo a metà, quello firmato il 15 maggio a Bamako, capitale del Mali, dopo i lunghi negoziati che si sono tenuti ad Algeri. A siglare la pace col governo, dopo il conflitto iniziato nel 2012, è stata infatti solo una parte delle milizie attive nel nord del Paese, composte prevalentemente di combattenti tuareg e arabi. Si è limitato invece a un’adesione di massima, chiedendo nuove trattative, il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma). Questo comprende, tra le altre sigle, il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) cioè il gruppo che nell’aprile di tre anni fa dichiarò l’indipendenza delle regioni settentrionali, innescando il conflitto che vide i tuareg presto sopraffatti non dall’esercito regolare, ma da varie formazioni jihadiste che arrivarono a minacciare anche il sud del Mali, prima dell’intervento di una missione militare francese.
Scetticismo diffuso. Oggi, alle richieste di autonomia, il governo di Bamako ha risposto promettendo la creazione di assemblee locali con poteri relativamente ampi e maggiore partecipazione delle popolazioni del nord all’amministrazione del Paese: ma il Mnla e i suoi alleati chiedono concessioni più ampie. È questo il motivo per cui “in generale qui i cittadini sembrano contenti dell’accordo, ma sono in parte scettici e diffidenti nei confronti sia dei movimenti che non hanno firmato, sia della comunità internazionale”, come testimonia dalla capitale l’abbé Timothée Diallo, curato della cattedrale e responsabile della comunicazione dell’arcidiocesi. La convinzione diffusa, infatti è “che se questi gruppi non hanno firmato, significa che sperano di trovare sostegno altrove”. A creare incertezza sono inoltre gli scontri ripresi nel centronord del Paese tra milizie filogovernative e Mnla. Una situazione che ha provocato anche la rottura del cessate il fuoco tra indipendentisti ed esercito ed ha messo in dubbio fino all’ultimo anche la semplice adesione dei miliziani all’accordo di Algeri.
Stato assente. L’instabilità politica porta inevitabilmente con sé anche conseguenze sociali: il disarmo dei combattenti e il loro reinserimento nella società attraverso iniziative mirate sarebbero infatti garanzie di pacificazione, ma “finché i movimenti armati, che cercano di riposizionarsi e guadagnare terreno, resteranno attivi, non sarà possibile nessuna iniziativa di smobilitazione”, prosegue l’abbé Diallo. Gli attacchi infatti hanno riguardato spesso anche operatori umanitari e gli stessi caschi blu della missione Onu nel paese (Minusma): tra luglio 2013 e metà aprile 2015 già 79 militari inquadrati sotto la bandiera delle Nazioni Unite hanno perso la vita. Secondo un rapporto dell’organizzazione per i diritti Human Rights Watch, in più, è ormai da metà dello scorso anno che, con la fuga di dipendenti pubblici e personale giudiziario, nel nord si è creato “un vuoto dell’autorità statale”. Ad esserne vittime sono spesso pastori, depredati delle greggi da razziatori in moto, commercianti e camionisti, rapinati dagli stessi banditi delle loro merci.
Presenza jihadista. Lo scopo delle imboscate, però, sostiene l’abbé Diallo “è quello di logorare le autorità, di sabotare il processo di pace, che non fa gli interessi dei jihadisti, dei trafficanti di droga e di armi: con la pace non potrebbero più fare affari”. Sono soprattutto i fondamentalisti a preoccupare: gruppi come al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) o il Movimento per l’unità e il jihad in Africa occidentale (Mujao) hanno subito colpi importanti da parte dei militari francesi ormai attivi in tutta la regione, ma le sigle estremiste si sono dimostrate capaci di colpire la stessa Bamako. Nella capitale c’è anche chi usa la loro presenza per togliere ulteriore legittimità agli indipendentisti, sostenendo che i ranghi di queste milizie siano ormai infiltrati. A prescindere dalle tesi politiche, ci sono pochi dubbi che, come riconosce anche Human Rights Watch, la disillusione delle popolazioni del nord nei confronti del governo faccia sì che i gruppi islamisti “stiano aumentando il reclutamento di giovani disoccupati stanchi della situazione attuale”. È questa, anche secondo l’abbé Diallo, la vera divisione che si sta creando nel Paese: “Non ci sono problemi tra popolazioni del nord e popolazioni del sud, né tra cristiani e musulmani, il nodo sono semplicemente i jihadisti”, conclude.
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