Adamantino, atavico, lusinga, contrizione, celia, dirimere sono alcuni dei termini sui quali viene spesso aperto un dibattito. La lingua non è però solo un insieme di lemmi a rischio estinzione, da salvare dalla famigerata e paventata (anni fa) invasione di vocaboli stranieri, di anglicismi che talvolta la infarciscono con esiti indisponenti, o di presunti neologismi in realtà legati in modo effimero all’attualità del momento. Se è vero che non si può sostituire “happy hour” con “ora felice”, o “escort” con un’equivalente italico di difficile individuazione senza incorrere in esiti involontariamente comici, il pericolo reale sembra essere l’eccessiva semplificazione del linguaggio e del vocabolario, soprattutto di tanti giovani, un vero e proprio impoverimento, legato anche all’utilizzo dei social, per i quali, in base ad un saggio del linguista Raffaele Simone, non vengono utilizzate che poche centinaia di parole per esprimere qualsiasi concetto o pensiero.
In primo piano la responsabilità dei media, rimproverati da alcuni di “cannibalizzare” la lingua italiana. Ma forse questo impoverimento corrisponde anche, pure senza volersi addentrare in indagini socio-antropologiche, al generale impoverimento del pensiero. Il secondo problema è la confusione disinvolta e generale nell’uso dei termini, in particolare di quelli “sensibili”. Su questo dovrebbe interrogarsi soprattutto la politica alla quale non sarebbe male chiedere di smettere di equivocare e di giocare sulle parole.