La censura su YouTube è una specie di ossimoro per la generazione digitale del terzo millennio. La piattaforma di broadcasting è nata dieci anni fa proprio per permettere a chiunque di diffondere su Internet i propri video autoprodotti, senza nessuna altra censura che non fosse quella legata ai reati contro la morale. Ma le cose cambiano e così, mentre le organizzazioni terroristiche continuano a fare un uso disinvolto delle libertà concesse dalla rete, YouTube si ritrova inaspettatamente al centro di una contesa giudiziaria che rischia di avere conseguenze significative sull’evoluzione del diritto di espressione in rete.
La storia che sta facendo discutere i media di mezzo mondo, nasce con la pubblicazione in rete di un film intitolato “Innocence of Muslims”. Un’attrice americana, Cindy Lee Garcia, scopre che la sua immagine è stata utilizzata nel film senza che lei lo abbia consentito. I produttori, dice la donna alla magistratura, hanno utilizzato alcune sequenze che lei aveva girato per un’altra pellicola e poi l’hanno doppiata facendole dire una frase contro Maometto che è considerata blasfema dall’Islam. Dopo la pubblicazione del film su YouTube, l’attrice comincia a ricevere molte minacce di morte da parte di fanatici e di sedicenti gruppi di fondamentalisti. Riesce così ad ottenere dalla corte di giustizia un’ingiunzione affinché YouTube rimuova il film dalla propria piattaforma. Puntuale il colpo di scena: undici magistrati della nona corte d’Appello federale a San Francisco hanno ribaltato la decisione dei loro colleghi e hanno detto, senza mezzi termini, che YouTube non avrebbe dovuto essere costretta a cancellare il video. La notizia della determinazione assunta dalla Corte d’Appello è stata salutata con entusiasmo dai paladini della libertà di espressione. Alcuni giornali e gli avvocati di YouTube hanno sventolato la bandiera del primo emendamento della Costituzione americana, quello che recita, testualmente: “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione, o che limitino la libertà di parola, o di stampa”. Gli avvocati della donna, invece, non hanno voluto commentare.
La questione è delicata. Dopo la strage nella redazione del giornale parigino “Charlie Hebdo”, il livello di attenzione dei servizi di intelligence di tutto il mondo su ciò che accade nel sistema di comunicazione si è innalzato. Il dibattito che in Francia e altrove nel mondo si è scatenato dopo la strage di Parigi ha messo a fuoco un problema nuovo. Fino a dove si possono spingere la satira e la libertà di espressione quando si offendono la dignità e il sentimento religioso dei credenti? La contraddizione evidente nelle due decisioni contigue della magistratura americana (una a favore della censura, l’altra contraria) dicono molte cose sull’incertezza che caratterizza questo dibattito. Si tratta di un tema che affonda le proprie radici nella storia della comunicazione ma che, con il web, ha fatto un salto di qualità. La disintermediazione operata dai nuovi mezzi che permette a chiunque, senza controlli, di pubblicare sulla rete ciò che vuole, pone problemi giuridici e deontologici completamente nuovi.
Google ha sempre mantenuto un ruolo neutrale rispetto ai contenuti pubblicati su YouTube. “Non siamo editori”, hanno ripetuto fino a sgolarsi per non spaventare le major cinematografiche e televisive e le società editoriali. La loro neutralità è una strategia di mercato. Mantenendo una posizione di “terzietà” possono dialogare con tutti allargando a dismisura i confini del proprio mercato di riferimento. Una strategia disegnata a tavolino che adesso però deve fare i conti con la realtà. Il mondo degli uomini è un posto complicato ed è difficile non prendere mai posizione. Anche il legislatore dovrà così ripensare il proprio ruolo nello scenario che la rivoluzione digitale ha modificato profondamente.
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