“Quando c’erano le ragazze il clima era ben diverso. I giovani si sentivano di dover fare bella figura, c’era più competizione e più motivazione, perfino nello studio… E, soprattutto, si ricostruiva un’aria di famiglia, di casa”. L’aria di famiglia è più preziosa di quella che si respira, quando si è rinchiusi in un carcere minorile. Per qualche anno, grazie a uno strano intreccio d’intelligenza e burocrazia, il “Ferrante Aporti” di Torino ebbe anche una sezione femminile. Non c’erano molti contatti diretti, ma la sola presenza delle ragazze aveva cambiato nel profondo la vita del carcere: aveva fatto vedere come, anche là dentro, fosse possibile crescere e sperare.
Ora le ragazze non ci sono più, ma i “segnali di speranza”, per i giovani del Ferrante, non sono venuti meno. Fra l’altro, si stanno preparando a un grande appuntamento, mancano pochi giorni. Poi saranno a tavola col Papa. Il 21 giugno Francesco, in visita a Torino, pranzerà con loro, ha voluto lui che ci fossero – come, all’inizio del pontificato, andò a trovare gli altri ragazzi del carcere romano, a Casal del Marmo. A Torino si andrà in arcivescovado, ma il tempo del pranzo sarà un dialogo diretto, senza sbarre.
Come segnerà la loro vita questo incontro? Il cappellano del carcere non conosce la risposta. Lui sa che i ragazzi hanno accolto l’idea con entusiasmo, vorrebbero esserci tutti, anche i musulmani e gli ortodossi. Si vedrà. Intanto l’attesa coinvolge tutti – come in una famiglia che si prepara a un grande appuntamento.
Don Domenico Ricca, salesiano, è da 35 anni il cappellano del “Ferrante”. Il libro di Marina Lomunno – “Il cortile dietro le sbarre. Il mio oratorio al Ferrante Aporti. Intervista con don Domenico Ricca” (Elledici) – uscito da qualche giorno e presentato al Salone di Torino, racconta non la sua vita ma l’“oratorio dietro le sbarre”: il suo lavoro di prete interpretato in una situazione così difficile e particolare, ma non diverso, nella sostanza, da quello dei suoi colleghi salesiani, in oratorio, nelle scuole, nelle società sportive. Lungo questi 35 anni il cappellano ha incontrato anche i protagonisti di vicende clamorose, autori di delitti pesanti e difficili persino da comprendere: la Erika di Novi Ligure che uccise mamma e fratellino insieme col fidanzatino Omar; le ragazze di Chiavenna, che massacrarono una suora… ma chi cerca nel libro i particolari da realtà romanzesca rimarrà deluso: don Mecu (lo chiamano così, in piemontese) non ha bisogno di mettere in piazza queste storie, il suo lavoro di educatore e di prete è altro. Il libro documenta, invece, proprio queste “finestre di speranza” che si possono costruire, anche in carcere, con fatica e determinazione. “Dentro quei muri vivono persone vere: i ragazzi ma anche le guardie carcerarie, i dirigenti, i magistrati, gli insegnanti volontari, gli educatori. Il lavoro del cappellano è di coinvolgersi insieme in progetti che ‘facciano vita’, altrimenti rimane solo la burocrazia delle regole, e la cronaca delle rivolte”.
Quando gli si chiede di riflettere sulle storie dei suoi ragazzi don Mecu ha pochi dubbi: anche da insegnante e da prete d’oratorio il suo problema erano le famiglie: quelle che avrebbero dovuto esserci e non c’erano, travolte dalla droga, dalla disoccupazione, dall’ignoranza. È soprattutto in queste “famiglie cancellate” che cominciano le “devianze”, come poi i sociologi chiamano le storie che sconvolgono la vita dei ragazzi. Per questo è così importante ripartire da relazioni umane vere e solide. Il punto, si direbbe, non è tanto di aprire le porte del carcere ma di starci dentro sapendo che se ne può “uscire” – e non segando le sbarre.
Il libro, sotto forma di una lunga intervista, arricchita di documenti e testimonianze, è stato scritto dalla giornalista Lomunno, redattrice del settimanale diocesano di Torino “La Voce del Popolo”, che da trent’anni segue dall’interno la vita della comunità e del territorio torinese; e uno dei pregi del lavoro è proprio il mostrare come il carcere non sia realtà a sé, chiusa dietro le sbarre, ma luogo in cui la stessa “carità cristiana” che si cerca di predicare e praticare fuori diventa qui progetto concreto. È lo stesso cammino che ha fatto don Bosco, quando portava i suoi ragazzi a visitare “La Generala”, la cascina allora fuori città, dalle parti di Mirafiori, che anche allora era sede del carcere minorile. L’importante, per don Bosco come per don Mecu, è considerare che nessuno di quei ragazzi – dentro come fuori – è “perduto”.
Marina Lomunno ha anche trovato un modo geniale di chiudere il racconto. È andata dietro altre sbarre, a porre le stesse domande che aveva fatto al cappellano e ai ragazzi. Con le suore di clausura del Cottolengo ha parlato delle stesse cose e ha ottenuto risposte simili: la libertà, come la speranza, cominciano nel cuore delle persone.
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