C’è poi il terzo verbo “abitare”: “Nessuna parola può essere credibile se non sappiamo abitare i luoghi della sofferenza con carità e competenza”, ha osservato il segretario generale della Cei. Riguardo alla presenza dei cappellani, “occorre qualificare il nostro servizio con una formazione adeguata di quanti oggi sono chiamati a stare in luoghi-frontiera e affrontare sfide e opportunità di peso notevole. Nelle stanze degli ospedali oggi arrivano persone con biografie plurali, di contesti culturali diversi, con diverse appartenenze religiose”. I cappellani devono interagire “con operatori sanitari che richiedono, giustamente, anche competenze adeguate in materie specifiche quali quelle etiche e bioetiche”. Così pure occorre “capacità di relazione interpersonale per incontrare persone già ferite nella loro storia. Una cura pastorale del mondo della salute esclusivamente incentrata sulla sacramentalizzazione è fuori contesto”. Il presule ha anche invitato “ad abitare i luoghi della cultura e della politica, secondo le responsabilità proprie di ciascuno”.
C’è poi l’educare: “Si colloca a questo livello la questione antropologica per eccellenza, che coinvolge la stessa nozione di vita umana, l’apprezzamento e la valorizzazione della differenza sessuale, la configurazione della famiglia e il senso del generare, il rapporto tra le generazioni, la risorsa costituita dalla scuola, la sfida costituita dall’ambiente della comunicazione digitale, la costruzione della comunità all’insegna del diritto e della legalità”. E “anche questa via vi tocca da vicino, non solo nella promozione di una cultura della vita e della solidarietà, ma anche per la intrinseca dimensione educativa che porta con sé la fragilità umana da diventare una scuola da cui imparare”. Infine, la quinta via è il trasfigurare: “Occorre trasfigurare, in modo particolare, la sofferenza umana, perché essa diventi partecipazione al disegno di redenzione di Cristo sul mondo. Il compito più difficile ma anche più importante è proprio questo: aiutare le persone sofferenti, con percorsi adeguati, delicati, attenti, prudenti, a riconoscere la dimensione salvifica della sofferenza vissuta con amore, in unione a quella di Cristo”. Se è vero, poi, che la pastorale non è solo “sacramentale”, ha concluso monsignor Galantino, “è anche vero che lo scopo di ogni opera evangelizzatrice è l’incontro dell’uomo con Cristo, l’amore che salva”.