“Durante la campagna per il referendum si è senza dubbio discusso molto più a lungo e approfonditamente del prezzo del burro che dei problemi della libertà, della democrazia, della sicurezza del popolo britannico”. Ma, infine, “la scelta compiuta dal popolo inglese ha valore storico. In gioco, nel referendum, non era soltanto la partecipazione o meno” all’Europa comunitaria, “ma la scelta del ruolo che l’Inghilterra deve svolgere nel mondo”. Esito del voto popolare per la permanenza o meno nella “casa comune”: affluenza alle urne 64,5%, sì a rimanere in Europa 17.378.581 voti, pari al 67,2% dell’elettorato; no 8.470.073, ovvero il 32,8%.
Fantascienza? Previsione del futuro con una sfera magica? Giornalismo acrobatico? Niente di tutto ciò. Si tratta di un commento dell’allora giovane Dario Velo, su “The Federalist” datato giugno 1975, all’indomani del referendum svoltosi nel Regno Unito il 5 giugno 1975, confermativo (o meno) dell’adesione di Londra alla Comunità economica europea, avvenuta due anni prima.
Esattamente 40 anni fa, dunque, i politici chiamarono alle urne gli inglesi per verificarne la volontà di restare nella Cee o, come si preferiva dire allora da quelle parti, nel Mercato comune, termine meno impegnativo rispetto alle necessarie – e allora modeste – cessioni di sovranità che richiedeva l’Europa unita, vaticinata da Churchill ma fondata da Schuman, De Gasperi e Adenauer. Il voto del ’75 finì con una vasta maggioranza favorevole alla permanenza nel consesso europeo: si erano schierati in tal senso il governo laburista del premier Harold Wilson, l’opposizione Tories della neo-leader Margaret Thatcher (proprio lei!), una miriade di partiti regionali. Per il “no” rimasero la sinistra laburista, una esigua minoranza conservatrice, il Partito unionista dell’Ulster, i secessionisti scozzesi e alcune frange sindacali.
Per quale ragione ricordare il voto di allora? Perché da Westminster è ora giunto il via libera a un nuovo referendum, questa volta sull’Unione europea, promesso dal premier David Cameron in caso di vittoria alle recenti elezioni politiche. L’avallo parlamentare, ad amplissima maggioranza (ma con il no degli scozzesi), fissa al 2017 un ricorso alle urne che si profila rischioso. Per l’Europa, che non può permettersi di perdere un Paese di prima importanza; per Cameron, che mentre indice il referendum lascia intendere che sosterrà il sì all’Ue (in caso di sconfitta dovrebbe lasciare Downing Street); per gli inglesi tutti, i quali potrebbero risvegliarsi ancora una volta “isolani” e isolati in un mondo globalizzato, dove l’unione fa la forza, sia in politica sia in economia.
La sconfitta peggiore potrebbe però toccare all’intero processo di integrazione europea se, pur di trattenere le scettica Londra, si dovessero rinegoziare al ribasso gli obiettivi, i valori, i progetti della “casa comune”.
Qualcuno potrebbe a questo punto domandarsi: “Londra val bene una messa?”.