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L’invito ai giovani: dai quello che puoi

Di M. Michela Nicolais

Quattro tavole rotonde, sulla scuola, sull’università, sulla comunicazione, sul mondo del cinema e delle fiction. Un cortometraggio di un liceo di Portici, alle porte di Napoli, per “connettersi” a chi ci sta accanto. Il rione Sanità “raccontato” da una suora che declina cosa significhi per lei “abitare”. Sono solo alcuni spunti dell’intensa giornata del secondo laboratorio nazionale organizzato oggi (13 giugno) dalla Cei a Napoli in vista del Convegno ecclesiale nazionale (Cen) di Firenze, sul tema: “Leggere i segni dei tempi e parlare il linguaggio dell’amore”. Abbiamo chiesto a monsignor Antonino Raspanti, vescovo di Acireale, vicepresidente per il Sud del Comitato preparatorio del Cen e presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, di “fare il punto” sull’appuntamento di oggi – al quale ha partecipato per intero, aprendone i lavori – e sul cammino fin qui percorso in preparazione dell’importante appuntamento di novembre, con uno sguardo alle sfide e alle prospettive da raccogliere. Non ultima, quella che fino ad oggi è stata definita la “questione meridionale”.

Educazione, cultura e comunicazione: tre ambiti molto vasti. Come ha voluto declinarli il laboratorio di Napoli?

“Quella dei tre laboratori in preparazione a Firenze non è stata una scelta di singoli temi specifici, ma di tre aree tematiche che si riferiscono all’unico grande tema radicale – l’umanità di Gesù – e che rappresentano tre frontiere su cui si gioca la questione dell’umanesimo. A Perugia si è parlato di ecumenismo e dialogo interreligioso, all’interno di una conformazione dell’Italia che sta cambiando e cambierà nell’arco di poco tempo, soprattutto a causa della denatalità e delle nuove migrazioni. A Milano si parlerà del lavoro che non c’è, come grande problema sociale. Qui a Napoli, invece, si è voluto riflettere sulle comunicazioni come ambito strategico, ma anche sulla scuola e l’università come luoghi di trasmissione del sapere, cercando d’indagare su che immagine di uomo passa in ambiti in cui si formano gli opinion makers e gli opinion leaders, dove si creano modi di pensare e comportamenti”.

L’idea è quella di ridurre le distanze – tra Chiesa di vertice e Chiesa “di popolo”, tra la gente e le istituzioni – come sta cercando di fare Papa Francesco, con la sua rivoluzione comunicativa?

“Ormai tutti ci siamo accorti che quello della comunicazione non è una semplice rete, ma un ambiente vero, che lo si frequenti o no. Un ambiente sempre più presente, soprattutto tra i giovani, per i quali la comunicazione è un luogo che si abita e che, da una parte, plasma e, dall’altra, viene modellato dai giovani stessi. Nel mondo digitale ci sono grandi rischi e grandi possibilità, che si proiettano in modalità di essere umani di cui ancora non si riescono a intravedere pienamente gli esiti. Ma la comunicazione oggi non è soltanto la rete, i social, il web: in molti Paesi come gli Stati Uniti, la Corea, il Giappone e parte dell’India gli adolescenti sono così ‘avanti’ da costruire loro stessi i robot. Ci sono vere e proprie gare, durante il liceo, e questi robot interferiscono con la vita quotidiana, perché vengono trasferiti in loro dei cosiddetti sentimenti. È la nuova frontiera del transumanesimo, dove i robot sono ‘compagni di vita’ per i quali s’invocano addirittura nuovi diritti e ci si chiede se si abbia il diritto di distruggerli, una volta che abbiano espletato le loro funzioni”.

Quali le sfide più urgenti da raccogliere, in vista del Convegno di Firenze?
“Bisogna starci e non pensare di tirarsene fuori. Bisogna vivere e abitare da credenti le cinque vie proposte dalla Traccia, chiedendosi quali azioni corrispondano di più al Vangelo. Non si tratta di strategie a tavolino, ma di uomini e donne che facciano in Cristo esperienze di umanesimo vissuto: nello studio, nel lavoro, in famiglia, nella vita di tutti i giorni”.

Lei è vicepresidente per il Sud del Comitato preparatorio del Cen. Pensa che sia arrivato il momento di riformulare in modo nuovo anche la questione meridionale?
“Io credo che siamo noi del Sud che non ci vogliamo svegliare. Non è più possibile continuare a chiedere che sia la Cei ad assumersi l’onere della cosiddetta questione meridionale – sulla quale del resto i vescovi italiani sono stati da sempre in prima linea – perché se non lo fa, la questione meridionale non diventerà mai questione nazionale. Questo non ha smosso le coscienze: non ci potrà mai essere un riscatto del Sud, se non si attiva la voglia di riscatto di questa parte di Paese. Come comunità ecclesiale possiamo fare moltissimo, ma nel Meridione lo facciamo poco, perché impieghiamo giovani e adulti nell’ambito intraecclesiale distogliendoli dal crearsi una grande competenza al di fuori di esso, in termini di retta coscienza, di bene comune, di formazione… Ci accontentiamo, non li strigliamo, non chiamiamo i giovani alla ‘misura alta della santità’, come faceva san Giovanni Paolo II”.

Cosa dirà Firenze ai giovani? Ci sono margini per ribaltare la prospettiva?
“Firenze vuole dire ai giovani: smettila di chiedere, dai quello che puoi e sai dare. D’altra parte, occorre riconoscere che la nostra è una società che ha rubato il futuro alle nuove generazioni. Bisogna fare di tutto per ridare loro diritto di parola”.

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