di Giovanna Pasqualin Traversa
Sofferenze e solitudini vissute nella paura e nel senso di colpa, che lasciano cicatrici indelebili nell’anima e a volte anche nel corpo, spesso non intercettate o addirittura silenziate da chi dovrebbe invece tendere una mano per aiutare le vittime a uscire dall’incubo della violenza domestica. Secondo l’Istat, 6 milioni 788 mila donne tra i 16 e i 70 anni subiscono o hanno subito almeno una volta nella loro vita una qualche forma di violenza; oltre il 62% da parte dei partner, attuali o ex, più del 60% di fronte allo sguardo terrorizzato dei figli minori che ne verranno segnati per sempre. Nessuna famiglia può dirsi al sicuro: teatro di maltrattamenti non sono solo quelle degradate o “a rischio”, ma pure famiglie “insospettabili”. Tra queste, rivela la scrittrice italo-iraniana Farian Sabahi – ma non è una novità – anche famiglie vicine alla Chiesa, dove si va a messa ogni domenica e ci si confessa pure. In un’opera in forma di lettera-appello al Papa, Sabahi ha idealmente sintetizzato le storie raccolte da diverse donne cattoliche del nord Italia dando loro voce e volto attraverso Ginevra, che racconta anni di violenza accompagnati dalle esortazioni del suo confessore a sopportare e a tenere unita la famiglia – lo stesso sacerdote che, sostiene la donna, concedeva l’assoluzione al marito “recidivo” – e di avere finalmente trovato la forza, anche grazie ad un altro prete, di denunciare il marito e ricominciare con i figli una nuova vita. Il testo, letto dall’autrice lo scorso aprile al TedxMilano (uno degli appuntamenti Technology Entertainment Design per lanciare idee meritevoli di essere diffuse), è stato pubblicato su un periodico e rilanciato qualche giorno fa in una trasmissione radiofonica nazionale. Di questa emergenza abbiamo parlato con don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia, partendo dall’appello conclusivo di Ginevra al Papa: “Ti chiedo solo una cosa: fa’ in modo che i sacerdoti non assolvano – sempre e comunque – gli uomini violenti”.
In situazioni come questa, qual è il compito di un sacerdote?
“La difesa del debole è il primo dovere di ogni cristiano; lo è ancor più per il pastore di una Chiesa che, ammonisce Papa Francesco, deve essere ‘ospedale da campo’. Quando una persona viene a consegnare un dramma così penetrante, pur nel sigillo confessionale, il sacerdote ha in mano un bisturi con cui può aiutarla a liberarsi dal senso di colpa e dalla disistima di sé, incoraggiarla a custodire se stessa e i propri figli, sostenerla nel pretendere che il coniuge si curi. In casi estremi si può anche parlare di ‘separazione terapeutica’ da valutare come un dovere, e non solo un diritto, per la tutela di sé e dei propri bambini”.
E di fronte ad un uomo “maltrattante”?
“Compito del confessore è far capire che il pentimento, se sincero, deve portare ad un cambiamento di vita. Tuttavia questo tipo di uomo è spesso vittima di un passato di violenza, i suoi artigli affondano in ferite profonde. Occorre allora suscitare anche la consapevolezza dell’obbligo alla cura delle proprie nevrosi perché con adeguati percorsi terapeutici da certi comportamenti animaleschi si può uscire. È una questione di giustizia: chiunque venga a conoscenza di episodi simili deve assumersi le proprie responsabilità, a maggior ragione un pastore”.
La Chiesa sa intercettare e “abitare” questa sofferenza? In che modo può intervenire?
“Pur nella complessità e delicatezza delle dinamiche familiari e di coppia, è possibile intervenire con discrezione sostenendo la vittima di violenza con un accompagnamento di tipo affettivo e spirituale. In molte parrocchie ci sono coppie ‘preparate’ ed esperte, in grado di avvicinarsi con prudenza e prendersi cura di queste donne. Ma quando occorrono competenze psicologiche, legali, mediche di tipo professionale, è bene invitarle a rivolgersi ai consultori familiari di ispirazione cristiana, rete che svolge un servizio molto prezioso sul territorio. Il dramma della violenza, inoltre, è spesso coperto dall’omertà di familiari e vicini di casa; un’omertà che va interrotta facendo capire che pur nel rispetto delle situazioni più sensibili occorre avere occhi e orecchie capaci di vedere e sentire le ferite e le urla della porta accanto. Se sappiamo e non interveniamo, siamo tutti gravemente corresponsabili”.
La Chiesa ha un ruolo soprattutto educativo: come prevenire questa piaga?
“La preparazione al matrimonio non può ridursi alla formazione a ridosso delle nozze. Dagli Orientamenti pastorali 2012 è emersa la necessità di un accompagnamento graduale e continuo fin dalla tenera età, fatto di educazione ai sentimenti ma anche alla scoperta che tutti noi abbiamo emozioni negative che possono trasformarsi in rabbia e distruttività. Vanno riconosciute, imparando a contenere fin da piccoli – in famiglia, a scuola, in parrocchia, nei luoghi del divertimento e dello sport – le manifestazioni dell’ira. Se necessario, vanno curate. Ma occorre anzitutto dire la bellezza dell’amore e del servizio. Famiglia viene da famulus, servitore; la sua ricchezza è l’essere l’uno servo dell’altro: i coniugi tra loro e nei confronti dei figli; i figli nei confronti dei genitori anziani. E questo si gioca quotidianamente sulla testimonianza attraverso le ‘eroicità nascoste’ richiamate dal Papa, cui occorre dare visibilità. È la famiglia il vero fattore di felicità, ma deve convertirsi rimettendo egoismi o aspetti disfunzionali nell’orizzonte del Vangelo. E a volte questa conversione chiede ad una donna che subisce violenza anche di denunciare il proprio marito”.