Il primo Papa di nome Francesco ha regalato alla Chiesa e al mondo intero la prima Enciclica sull’ambiente, “sulla cura della casa comune”. Con un titolo dichiaratamente francescano, visto che il documento prende avvio con le stesse parole con le quali ha inizio il Cantico delle creature del Santo di Assisi, vale a dire Laudato si’. Una scelta coraggiosa, che rilancia l’attualità del Poverello, della forma di vita evangelica da lui praticata e di un tentativo riuscito di riformare la Chiesa dall’interno attraverso la scelta esigente della povertà e dei poveri. E chi oggi più della terra è povero e sempre più impoverito? Di fatto, “fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra” (n. 2). Sappiamo bene come il nostro pianeta subisca sistematicamente violenza, e se in proposito papa Francesco evita i toni apocalittici, non risparmia però verità amare, denunciando come “già superati certi limiti massimi di sfruttamento” (n. 27), anche per il fatto che si manifestano “sintomi di un punto di rottura” (n. 61), il famoso punto di non ritorno per la sostenibilità della vita umana.
Il primo dei sei capitoli del documento, Quello che sta accadendo alla nostra casa, è in sostanza una rassegna dei vari aspetti della crisi ecologica: inquinamento, rifiuti, riscaldamento globale, estinzione delle biodiversità, cambiamenti climatici… Con una peculiarità, che è quella di mettere in evidenza come “il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi” (n. 48; cf. n. 56), per cui “un vero approccio ecologico diventa sempre più un approccio sociale” (n. 49; cf. nn. 93 e 139). In altre parole, interrogarsi sulla creazione è sempre anche interrogarsi sul senso e sul fine dell’uomo dentro e con essa, sul suo agire responsabile o meno, per cui accanto a un’ecologia ambientale serve un’ecologia umana. Quest’ultima, inoltre, solleva i temi globali della fame, della distribuzione universale dei beni, dell’inclusione sociale, sfociando spontaneamente in una ecologia sociale fondata sulla fraternità. Troppo spesso, infatti, il grido dei poveri fa da contrappunto al grido della terra, per il fatto che sono loro a pagare il prezzo più alto della crisi ecologica: “Ai gemiti di sorella terra si uniscono i gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta” (n. 56). La tessitura delle tre forme di ecologia (ambientale, umana e sociale) fa assumere al documento una dimensione davvero globale. Si tratta della vera novità di questa Enciclica, che non si lascia mai catturare da questioni settoriali, ma rimanda a “uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità” (n. 111).
Hanno i cristiani una parola qualificata da dire sulla crisi ambientale? A questo interrogativo il documento risponde positivamente, valorizzando il Vangelo della creazione: si tratta del secondo capitolo, che dalla sapienza dei racconti biblici sulla creazione si spinge fino allo sguardo ammirato di Gesù sul mondo, sull’uomo, sulle creature (nn. 62-100). Si chiarisce che “dire ‘creazione’ è più che dire natura” (n. 76), che la creazione non va divinizzata (cf. n. 78), che ogni creatura ha una sua propria dignità e che “suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio” (n. 84). Si cita san Tommaso per sostenere che “la bontà di Dio non può essere rappresentata da una sola creatura”, ma non per questo si manca di evidenziare il posto singolare (non certo dominatore e dispotico, perché alla “preminenza” si unisce la “responsabilità”, n. 90, cf. n. 220) che spetta all’uomo tra le creature. Senza questa consapevolezza si cade in quell’“antropocentrismo deviato” (n. 118) che è stato la cifra prevalente di una certa modernità, causa prima e acceleratore della grave crisi ecologica dei nostri giorni (terzo capitolo: La radice umana della crisi ecologica).
Da questo sfondo problematico l’Enciclica risale la china indicando vie di approccio al degrado ecologico: la prima consiste nell’assunzione del concetto di ecologia integrale, cioè insieme ambientale, economica e sociale (quarto capitolo), presupponendo che il modo di porre il problema è esso stesso parte della sua soluzione.
Di fronte all’eclatante impasse del dibattito pubblico sull’ecologia (vertici politici, summit di esperti, conferenze internazionali…), il quinto capitolo (Alcune linee di orientamento e di azione) invoca una “reazione globale più responsabile” (n. 175) che dovrebbe condurre a una nuova governance. In che senso? Non solo organismi internazionali più autorevoli, ma una politica non sottomessa all’economia, nonché un’economia svincolata dal paradigma efficientista della tecnocrazia (cf. n. 189).
Infine il documento punta, nell’ultimo capitolo (Educazione e spiritualità ecologica), sulla “conversione ecologica” (n. 217), che nell’esperienza cristiana non è né opzionale né secondaria. Questa conversione sarà profonda e duratura nella misura in cui sarà “integrale”, coinvolgente cioè tutti gli ambiti dell’esistenza dei singoli, e “comunitaria”, vale a dire di intere comunità finalizzate alla stessa causa. Insomma, la vita cristiana autentica, convertita, è il migliore antidoto contro la crisi ecologica.
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