“Le chiese sono santuari. Quando una persona entra ha il diritto di pregare e adorare il Signore sentendosi sicura. Uccidere nove persone è una barbarie inspiegabile, ma ucciderle in una chiesa, mentre stanno studiando la Bibbia, rende questa vicenda di una ferocia ancor più incomprensibile”. Così il vescovo di Charleston, monsignor Robert Guglielmone, ha commentato la strage della scorsa settimana nella chiesa afroamericana Emanuel Methodist Episcopal per la quale è stato arrestato il ventunenne bianco Dylann Roof. L’America non è nuova a queste tragedie e la diffusione delle armi da fuoco è un immane e ricorrente problema sociale: ma questa volta il segno lasciato appare indelebile.
Cordoglio dei cattolici. Monsignor Guglielmone ha esteso le condoglianze a nome di tutti i cattolici della South Carolina alle famiglie: “Prego intensamente – ha detto – affinché tutte le persone coinvolte in questa tragedia, in questo momento di estrema prova, sentano la presenza confortante di Dio”. E alle sue parole fanno eco quelle di monsignor Michael Burbidge, vescovo di Raleigh in North Carolina: “Preghiamo per le vittime della carneficina di Charleston. Preghiamo per le loro famiglie. Preghiamo per i loro cari”, ha dichiarato via Twitter, sintetizzando un sentimento condiviso da centinaia di comunità cattoliche e di parrocchie in tutto il Paese, espresso con celebrazioni e veglie di preghiera.
Aggravante razziale. Gli Stati Uniti non sono però nuovi a fatti di questa gravità. Basti pensare al massacro di Newtown in Connecticut in cui il 14 dicembre 2012 sono stati uccisi 20 bambini e 6 persone che lavoravano alla scuola elementare Sandy Hook. O a quella del cinema di Aurora in Colorado il 20 luglio 2012 in cui hanno perso la vita 12 persone uccise da James Holmes. O ancora alla sparatoria alla scuola superiore Columbine nel 1999 (13 morti) e quella al Virginia Tech otto anni più tardi (32 vittime). Persino durante il weekend appena trascorso ci sono state due nuove sparatorie a Detroit e a Philadephia. Bilancio: un morto, e alcuni feriti, tra cui bambini. Imputato principale, la facilità nel comprare e possedere armi. Ma la carneficina di Charleston è stata diversa dalle altre. L’omicida ha colpito volutamente una chiesa afroamericana, farneticando alla vigilia di voler iniziare “una nuova guerra civile”. Spesso ritratto in fotografie deliranti vicino alla controversa bandiera degli Stati confederati d’America, da molti considerata un simbolo dei tempi in cui gli afroamericani erano schiavi, Roof ha riportato indietro l’orologio della Storia, in un anno peraltro caratterizzato negli Stati Uniti dal rigurgito delle tensioni razziali alimentate dagli eccessi di alcuni poliziotti bianchi, da Ferguson in Missouri a Baltimora in Maryland.
Chiese afroamericane. Dopo la Guerra di secessione (1861-1865) gli afroamericani hanno abbandonato le chiese che, da schiavi, erano stati costretti a frequentare, e hanno fondato i loro luoghi di culto, ridisegnando così la mappa religiosa del Sud. Dopo l’emancipazione, le chiese americane divennero, come ricordano lo storico W.E.B. Du Bois e altri, le prime istituzioni in America completamente gestite da neri. Oltre ai bisogni spirituali, queste chiese cristiane, diventarono punti di riferimento per l’istruzione dei ragazzi, quindi scuole, ma anche agenzie di collocamento, luoghi d’aggregazione e palcoscenici imprescindibili per chiunque aspirasse a una carriera politica. E ben presto divennero anche bersaglio dell’odio razziale.
Astio che viene da lontano. Nell’autunno del 1870 quando i Ku Klux Klan tentavano di ridurre di nuovo in neri in schiavitù, quasi tutte le chiese di Tuskegee in Alabama vennero incendiate. Quei roghi carichi di livore tornarono 93 anni più tardi in un momento topico per il movimento dei diritti civili guidato da Martin Luther King Jr., quando lo scoppio di una bomba uccise quattro ragazze in una chiesa di Birmingham in Alabama, famosa per le riunioni dei capi del movimento che fu determinante per superare la segregazione razziale. Quello di Charleston appare alla comunità afroamericana come uno spaventoso déjà vu.
Male da combattere alla radice. “Il razzismo non è un peccato come tanti altri”, ha scritto in una lettera dopo i fatti di Charleston, monsignor Joseph Edward Kurtz, presidente della Conferenza episcopale statunitense. “La discriminazione è un male radicale che divide la famiglia umana e nega la formazione di un mondo migliore. Non dobbiamo stancarci di costruire ponti. Dobbiamo vincere il razzismo e la violenza con l’amore per la vita, la speranza e la determinazione”.
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