Cinquant’anni fa i Beatles erano qui. Il 23 giugno 1965, i quattro baronetti (erano stati appena insigniti dalla regina d’Inghilterra dell’Ordine dell’Impero Britannico) scendevano alla stazione di Milano da un treno proveniente da Lione. Il nostro Paese entrava nella leggenda, anche se, a dire il vero, la televisione di allora non dette molto peso alla cosa, tant’è che non esistono filmati ufficiali dell’evento. Anzi, venne privilegiato il Cantagiro, una sorta di percorso compiuto con auto scoperte dalle quali salutavano i big di allora, prima di salire sui palchi delle varie città-tappe: quell’anno si partiva da Bari, agli antipodi del primo concerto italiano dei Beatles.
Ad onor del vero non è che nella loro patria per i quattro fossero solo rose e fiori: gli ambienti conservatori osteggiarono quei ragazzetti presuntuosi (“siamo più famosi di Gesù Cristo”, osò affermare John) che giocavano a fare i divi – ma lo erano sul serio – zazzeruti, ancheggianti e vestiti con giacchette azzurre attillate, per non parlar degli stivaletti che fecero la fortuna dei maestri calzolai in Inghilterra, che, per la verità, erano per la maggior parte italiani.
Alcuni lord insigniti della stessa onorificenza, offesissimi per la compagnia nella quale si erano venuti a trovare, la restituirono sdegnati. “Che tempi”, borbottarono sconsolati.
Milano, Genova, Roma furono le tappe nelle quali Love me do, Please please me, She loves you, A hard day’s night echeggiarono per la prima volta dal vivo in Italia. A Milano però non fu il pienone: solo i più giovani e i più avvertiti tra gli adulti accorsero, a parte alcuni attori, cantanti, giornalisti che avevano colto il cambiamento epocale.
Perché non si trattava solo di moda, di urletti e di ancheggiamenti. In quegli stessi giorni i baronetti stavano incidendo Yesterday, e di lì a poco ci sarebbe stata la stagione psichedelica, e quella legata alla meditazione trascendentale in India. Coretti e stivaletti stavano per essere soppiantati da profonde riflessioni sulla fine degli affetti familiari (Yesterday), sulla solitudine (Eleanor Rigby), avrebbero avuto luogo sperimentazioni musicali (“Sergent Peppers lonely heart club band” e il doppio lp bianco) dopo le quali la canzone non sarebbe più stata la stessa.
La stessa musica seria, da Stockhausen a Berio, ha dovuto fare i conti con quella rivoluzione, che non era più di forme, ma di contenuti: il dramma della droga, la morte, la follia, il sesso, la ricerca di altri valori che non quelli puramente materiali entravano nella canzone cosiddetta pop e diventavano letteratura, musica, arte. Grandi cantanti lirici cantarono le loro canzoni. La pittura deve qualcosa ai ragazzi di Liverpool, e anche la letteratura: romanzi, poesie, racconti, saggi, studi sociologici, psicologici, antropologici devono il loro motivo d’essere ai baronetti, così come il cinema.
La musica d’oggi, non si dica il rock dei Settanta, ma anche la ricerca contemporanea, da Battiato a Peter Gabriel, non esisterebbe senza quei quattro scalmanati che suonarono dodici pezzi a concerto (allora si era più parchi nelle esibizioni live), dodici il pomeriggio, dodici la sera a Milano e Genova per terminare con le quattro esibizioni al cinema Adriano di Roma.
Gli aneddoti più gustosi nascono proprio nella capitale, come la moltiplicazione miracolosa delle bacchette la mattina dopo che Ringo aveva gettato le sue al pubblico. Quel giorno parecchi batteristi romani giuravano di avere le uniche due vere bacchette provenienti dalla mitica Ludwig del nasuto dei Beatles.
Leggenda e realtà, musica colta e misura popolare, letteratura e mito sono stati parti integranti della storia dei quattro ragazzi di Liverpool.
Un pezzo di questa storia è passata di qui. Giusto cinquant’anni fa.