Il Califfato un anno dopo: esattamente il 29 giugno 2014, Ibrahim al-Badri, in arte Abu Bakr al-Baghdadi, proclamava la nascita del Califfato, un territorio compreso tra Siria e Iraq, conquistato, manu militari, dalle sue milizie fondamentaliste islamiche. Mosul, Ramadi, Raqqa, Palmira, sono alcune delle località dove sventola il vessillo nero del Califfo. Da quel momento una lunga scia di sangue che, come dimostrano gli ultimi attentati in Tunisia, Francia, Kuwait e Somalia nel venerdì di Ramadan, non accenna a finire. Anzi.
Dal Maghreb al Mashreq, dal Golfo arabico fino all’Afghanistan, jihadisti di varie provenienze hanno espresso fedeltà al califfo Baghdadi. Le stragi contro le minoranze irachene yazide e cristiane, l’uso sistematico dello stupro, della tortura, della pena di morte, dei rapimenti, sono i mezzi abituali con cui i miliziani neri del califfo impongono la loro supremazia alle popolazioni conquistate. A fare da cassa di risonanza mondiale a questo marketing del terrore le decapitazioni di prigionieri occidentali, il giornalista americano James Foley fu il primo (19 agosto 2014) ad essere sgozzato dopo aver girato un videomessaggio diretto ai governi occidentali. Altri 8 hanno seguito la stessa sorte, con le immagini mostrate attraverso la Rete e soprattutto attraverso i social network. Un bilancio che sale giorno dopo giorno e che alcune stime fissano in almeno 15mila morti, la maggioranza dei quali di fede musulmana, la stessa professata (?) dai loro carnefici dello Stato Islamico.
Dodici mesi di minacce anche all’Occidente – “arriveremo a Roma” annunciava il Califfo non molto tempo fa – i cui Governi e relative strutture di intelligence, almeno all’inizio, avevano sottovalutato, salvo poi essere svegliati bruscamente da stragi come a Charlie Ebdo a Parigi, o al museo del Bardo, a Tunisi. Già, proprio la Tunisia, unico Paese tra quelli usciti dalle Primavere arabe ad avere imboccato con decisione la via della democrazia. Dopo un anno l’Occidente si ritrova a prendere le misure necessarie per salvaguardare la sicurezza interna dalle minacce dei terroristi che fanno reclute tra i tanti arabi che già vivono al suo interno.
Il problema, va sottolineato, non è solo di sicurezza ma anche culturale e religioso poiché vede il Califfato come l’espressione di una versione del Corano intollerante, non solo verso chi musulmano non è, ma anche contro chi propugna un Islam moderato. È lecito, quindi, dopo un anno, chiedersi che cosa si stia facendo per evitare che le nuove generazioni conoscano solo odio religioso e intolleranza. Non saranno certo gli aerei della coalizione a mettere la parola fine allo Stato Islamico, molto più probabilmente un serio processo politico che, da un lato riconosca le responsabilità della comunità internazionale nelle tensioni e nelle crisi in Medio Oriente, e dall’altro la spinga a cessare ogni forma di complicità con le parti in guerra. Senza perdere altro tempo.
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