L’industria farmaceutica in Italia è composta da 174 fabbriche, con 63mila addetti (il 90% laureati o diplomati) oltre a 65mila nell’indotto. Produce per 29 miliardi di valore, il 72% destinato all’export. Dedica 2,5 miliardi agli investimenti di cui 1,3 in ricerca e 1,2 per innovazioni produttive. Ogni addetto del settore genera 389mila euro di fatturato, contro il manifatturiero hi-tech che produce per 312mila euro pro-capite e la media del manifatturiero che si ferma a 225.900 euro. Questa produttività elevatissima genera tasse per 4,4 miliardi, stipendi e contributi per 6 miliardi e attrae multinazionali estere che controllano, direttamente o indirettamente, il 60% delle aziende con sede in Italia. Tra gli aspetti considerati negativi dal settore, la spesa pubblica pro-capite per farmaci in Italia che risulta inferiore del 30% rispetto alla media dei Paesi “big” europei e la lentezza nell’approvazione dei nuovi farmaci. I tempi medi per mettere sul mercato una nuova medicina oscillano tra i 12 e i 15 anni. Attualmente sono allo studio su scala mondiale oltre 7mila nuovi farmaci, dei quali 1.800 per neoplasie, 1.300 per malattie neurologiche, 1.200 per infezioni, 1.100 per sindromi immunitarie e il rimanente per disturbi cardiovascolari, psichiatrici, diabete e hiv. Il 2 luglio “Farmindustria”, l’associazione di categoria delle industrie farmaceutiche, ha tenuto a Roma la propria assemblea annuale, confermando alla guida per la terza volta Massimo Scaccabarozzi, che sul piano professionale ricopre l’incarico di presidente e amministratore delegato della società Janssen-Cilag (sedi a Milano e Latina). Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo.
Quali attese possono legittimamente essere vissute dai cittadini circa la creazione di farmaci innovatici e biotecnologici, soprattutto per le malattie più gravi?
“Nella mia relazione all’assemblea di Farmindustria ho citato un pensiero importante: ‘non lasciatemi morire fino a che sono ancora vivo’. Si tratta di una questione etica che ci dobbiamo porre tutti. Oggi assistiamo a un grande processo innovativo, le malattie che prima erano mortali o invalidanti spesso non lo sono più. Molte di quelle che prevedevano ricoveri vengono risolte con una pillolina. C’è da chiedersi perché nel nostro Paese ci devono essere 21 velocità, tante sono le Regioni, e perché ci devono essere ritardi rispetto all’Europa. Solo perché siamo sottofinanziati, o perché a volte questi finanziamenti servono per pagare apparati, invece che welfare?”.
Lei auspica quindi maggiore velocità e precisione nei finanziamenti?
“Quando leggo che i farmaci anche ‘salva-vita’ arrivano da noi 300 giorni dopo che negli altri Paesi, penso sempre ai miei genitori che quel tempo non l’hanno avuto. Oggi mio papà e mia mamma sarebbero entrambi vivi se avessero avuto l’opportunità di avere i farmaci di cui disponiamo. Eppure, la mia mamma non è morta più di sei-sette anni fa. Quindi a volte il tempo non ce l’abbiamo ed è un peccato non poter avere a disposizione gli strumenti per regolare la vita, perché questa è fatta di momenti. Il momento di veder crescere un figlio, di vedere un nipotino nato. Mi ricordo una cosa che mi colpì molto e mi fece amare da subito questo settore. Quando una signora malata di cancro mi disse: ‘A me non interessa quanto vivrò, vorrei vivere a lungo abbastanza per vedere nascere mio nipote’. Queste sono le domande etiche che ci dobbiamo porre e che non devono essere messe in secondo piano”.
C’è chi obietta che i farmaci più avanzati hanno costi elevatissimi e adottarli su larga scala metterebbe a rischio il bilancio pubblico. Cosa risponde?
“Rispondo che se guardiamo solo la spesa farmaceutica, è vero. Ma cosa fa risparmiare la spesa farmaceutica? Facciamo un esempio: fino a pochi anni fa quando un paziente aveva un’ulcera gastro-duodenale stava in ospedale da 3 giorni a una settimana per un intervento chirurgico a 1.000 euro al giorno. Oggi non c’è più nessuno che va in ospedale per questo motivo perché con pochi centesimi al giorno ci sono farmaci che la curano. È lecito chiedersi dove sono stati reinvestiti questi risparmi: forse in apparati, o strutture, a scapito della distribuzione di cure avanzate? Faccio un altro esempio, quello dell’epatite C. Il farmaco costerà pure decine di migliaia di euro, però cura l’epatite. Quanto costa il malato non curato? Molto di più, fino a centinaia di migliaia di euro, e in più quel malato si potrebbe curare e guarire con una compressa, invece che fare la chemioterapia, i trattamenti per la cirrosi e magari anche uno o due trapianti di fegato. Dove sta allora il vero risparmio?”.
Grazie alle ricerche in atto che speranza di vita si può avere da qui in avanti?
“La speranza di vita in Italia ci vede tra i più longevi al mondo. In ‘Farmindustria’ ci siamo inventati ‘l’orologio della vita’ per far comprendere un fatto: che dagli anni Cinquanta ad oggi ogni 4 mesi di vita ne abbiamo guadagnato 1. Sono 6 ore guadagnate al giorno, come dire che io stasera a mezzanotte ‘torno’ alle 6 del pomeriggio, rispetto a mio nonno che non ha avuto questa opportunità. Il 73% di questa crescente aspettativa di vita è dovuto alla farmaceutica, il resto alle altre cure sanitarie. Possiamo fare di più? Certo, però le cure innovative bisogna darle ai pazienti. Se non le diamo, sarà difficile che si proceda sul percorso intrapreso”.