È un menù un po’ indigesto quello che ci propone la liturgia della Parola della 14^ domenica del tempo ordinario: un profeta mandato da Dio a una razza di ribelli che non lo ascolterà (Ez 2,2-5); un apostolo del Vangelo al quale è stata data una spina, un inviato di Satana per percuotermi (2Cor 12,7-12); infine lo stesso Signore Gesù che, tornato nella sua patria, tra i suoi, si trova ad essere motivo di scandalo per la sapienza della sua predicazione e i prodigi compiuti dalle sue mani (Mc 6, 1-6). La prima realtà a cui queste letture ci rimandano è certamente il fatto che colui che vuole vivere autenticamente la sua fede in Gesù Cristo rendendo testimonianza al Vangelo, prima o poi andrà sicuramente incontro all’incomprensione, al rifiuto e, come sta avvenendo oggi per tanti fratelli e sorelle, al martirio. Ma in queste poche righe vorrei condividere con voi una riflessione che nasce dall’invito che Papa Francesco non si stanca mai di ripetere in ogni occasione, l’invito a svegliarsi e a uscire dal torpore dell’indifferenza. Il Concilio, nella Lumen Gentium ci ha ricordato che il popolo di Dio, in virtù del battesimo, condivide i tre attributi di Cristo: sacerdote, re e profeta. Sì, tutti noi battezzati siamo profeti, cioè mandati, come Ezechiele, a dire a quanti abitano le nostre stesse città e vivono i nostri stessi giorni: «Dice il Signore Dio»; cioè non possiamo tacere accettando passivamente o, come dice il Papa, con indifferenza quello che succede nel nostro condominio come nel mondo intero, con la scusa che non dipende da noi e non possiamo farci niente. No, noi cristiani non possiamo fare a meno di prendere posizione, con le parole e con le opere, ogni volta che le esigenze del Vangelo lo richiedono. Facciamo un affondo:
Gesù esercita il ministero di profeta nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua. Quanto siamo disposti, nelle relazioni più strette, intime, quotidiane a vedere nell’altro colui che mi aiuta a conoscere e a fare la volontà di Dio (cioè sempre il profeta), e quanto noi ci curiamo di esserlo per l’altro operando con carità nella verità, consapevoli che la vita in Cristo non è un fatto privato, ma è un “affare di famiglia”, visto che Dio stesso nella Scrittura si chiama Sposo e Padre del suo popolo? Ancora più a fondo: se ci venisse in mente di esaltarci perché, come Gesù, siamo incompresi, rifiutati, disprezzati perché cristiani, chiediamo anche noi di avere una spina nella carne, come quella di S. Paolo, perché ci ricordi che se non sentiamo nella carne la fatica di essere discepoli ed apostoli, non sapremo con-patire con il nostro Signore Gesù Cristo, che non è stato un super eroe, né chiede a noi di esserlo, anzi ci dice: «Ti basta la mia grazia; la forza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
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