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Scelta tra gli uomini del pensiero e uomini dell’ideologia

Di Paolo Bustaffa

Esiste ancora un pensiero politico sulla solidarietà oppure si è riusciti a spegnerlo o indebolirlo con i pur “saggi” richiami alla sicurezza e alla legalità?
Quale futuro può avere una politica che non riesce più a declinare la solidarietà con la complessità, con la crisi, con la paura?
Dove è finito il respiro educativo della politica se la solidarietà viene imprigionata in un cerchio di egoismo solidale che non consente accesso a quanto sta accadendo nel mondo e non solo in Europa?
E come può esserci una politica senza un pensiero, un progetto e un percorso che sappiano dialogare con la coscienza delle persone e delle comunità?
Il segnale più inquietante che in questi giorni arriva dalla cronaca non è tanto l’indebolimento dell’esperienza comune europea quanto la dissolvenza della politica. Superfluo e inutile riscrivere il disegno, insistente e crescente, di fare dell’Unione europea l’unico o il primo responsabile dei disastri politici, sociali ed economici. Altrettanto inutile e superfluo tornare su questi temi perché si è un po’ sconfortati e scoraggiati da un’ ideologia che sta prendendo il sopravvento sul ragionamento. Di fronte all’uomo dell’ideologia l’uomo del pensiero si sente fuori gioco. Ma non tace. Così Luigi Ciotti, a cui qualcuno tra poco chiederà o ha già chiesto quante tende con immigrati ha nel suo giardino, scrive su un quotidiano nazionale di questi giorni, che “per voltare pagina occorre quella radicale trasformazione delle coscienze a cui richiama il Papa nell’ultima enciclica, laddove sottolinea che la crisi economica ‘doveva essere un’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici’ e ‘per ripensare i principi obsoleti che continuano a governare il mondo’”.
Ma anche citare il Papa, questo Papa, oggi può far riecheggiare la stessa domanda: “Quante tende di immigrati ci sono in Vaticano”?
Per avere una risposta basterà attraversare i territori del mondo dove la Chiesa è presente con le Nunziature apostoliche, le Caritas, i missionari, il volontariato, le opere di accoglienza ed educazione.
Forse questa presenza e questa voce, insieme con altre e più di altre, vanno oggi in soccorso alla politica per evitarne la dissolvenza a fronte dell’incapacità di leggere i segni dei tempi e a fronte della presunzione di scrivere il futuro rinviando centinaia di migliaia di persone nei loro Paesi dilaniati dalla fame, dalla guerra, dalla povertà. Un rinvio che, impropriamente definito “rimpatrio”, posto che la destinazione è spesso una terra che non è più quella dei Padri, non è più una Patria.
E così perde sostanza la proposta di aiutare i singoli Paesi in difficoltà, mentre dovrebbe crescere l’impegno culturale e politico per rafforzare le istituzioni internazionali a partire da quelle europee.
Ed è qui che il ruolo dei media diventa irrinunciabile per risvegliare la coscienza delle persone perché solo dal soprassalto di queste potrà risvegliarsi la coscienza del mondo. Primo compito è quello di aiutare una società a essere capace di “resilienza” cioè di resistere alla paura sia quella che accompagna l’arrivo di persone in fuga dal terrore sia quella provocata dai seminatori di terrore e dai costruttori di ingiustizia. Occorre vincere la paura.
In questa direzione i media incominciano a muoversi pur dentro fenomeni sociali e politici che hanno sostituito il realismo con il pessimismo che è padre di tutte le paure e di tutti gli immobilismi.
A chi è ai bordi della cronaca appare chiaro che in questo momento storico i media possono davvero ritrovare le ragioni più alte del proprio essere. Devono decidere con più convinzione per un’alleanza con gli uomini del pensiero e non con gli uomini delle ideologie. E questa non è una scelta facile.

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