È “un uomo perdonato”, un peccatore “che è stato ed è salvato” dai suoi molti sbagli quello che bussa alla porta dell’enorme carcere di Palmasola, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia. Così si presenta il Papa davanti agli oltre 5000 detenuti che popolano il “Centro rieducativo”, come ufficialmente viene chiamato. Una nomenclatura che non rispecchia affatto la realtà di questa struttura in cui regna l’anarchia, che è emblema di una ‘ingiusta giustizia’ che ha relegato lì uomini, donne, minori, anziani, l’80% dei quali senza nemmeno aver ricevuto un processo o un’accusa specifica, privati della propria libertà e di qualsiasi mezzo di sostentamento.
Una struttura che si presenta come Carcere riabilitativo ma che viene deplorata dai boliviani, per la sua cattiva fama, per le scarse condizioni igieniche e alimentari, per la promiscuità in cui vengono fatti vivere narcotrafficanti adulti e ladruncoli di neppure 10 anni, assassine e madri incinte o donne con malattie terminali. Un “inferno” insomma, come affermano tanti abitanti di Santa Cruz, che nel 2013 è finito all’attenzione delle cronache mondiali per una violenta protesta interna che ha causato il massacro di 38 persone.
Tuttavia a vederlo oggi, fremente per l’arrivo del Pontefice, questo ‘villaggio’ penitenziario sembra una cittadella felice. Palloncini bianchi e gialli si ergono dalla numerosa folla assiepata sotto il palco nel campo sportivo dove il Papa pronuncia il suo discorso, insieme a striscioni di “Bienvenido Francisco”. I detenuti si sono preparati per settimane a questa visita, componendo canzoni (una, “Libertad”, ha vinto anche un concorso interno a Palmasola), scrivendo libri o allestendo e pulendo i vari spazi.
Bergoglio giunge puntuale alle 15.30 (ora di Roma) e trascorre una buona mezz’ora a salutare e abbracciare i diversi ‘ospiti’, specialmente i bambini, nelle braccia delle loro mamme. Una scena commovente. Per primo prende parola il vescovo Jesús Juárez Párraga, SDB, arcivescovo di Sucre e responsabile della pastorale penitenziaria, che ribadisce la dura denuncia per le cattive condizioni di vita nel Centro e la totale indifferenza del governo.
Altrettanto incisive sono le testimonianze dei tre detenuti – due uomini e una donna – che raccontano la propria storia sofferta, i loro sbagli (rapine, omicidio…), la loro volontà di trovare una riabilitazione gratuita che si scontra invece con un disagio, spirituale e materiale, che soffoca qualsiasi speranza. “Santità, abbiamo commesso colpe ma siamo figli di Dio”, afferma Ana Maria tra le lacrime. “Ci sono qua persone che stanno pagando a causa delle menzogne, dell’inganno e dell’abuso di potere….”. Lei, dice la donna, “come inviato di Dio ci dà speranza, perché il suo messaggio arriverà direttamente ai governanti”.
Di fronte a queste testimonianze le parole del Papa suonano come una carezza: “Non potevo lasciare la Bolivia senza venire a trovarvi – esordisce – senza condividere la fede e la speranza che nascono dall’amore offerto sulla croce. Grazie per avermi accolto. So che vi siete preparati e avete pregato per me. Vi ringrazio tanto”.
“Chi c’è davanti a voi?”, domanda poi il Pontefice. E risponde “con una certezza che mi ha segnato per sempre”: “Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati. Ed è così che mi presento”. Questo ‘peccatore’ vestito di bianco non ha “molto da darvi o offrirvi”, ma porta in dono ai detenuti di Palmasola “quello che ho e quello che amo”: Gesù, la misericordia del Padre.
Cristo – afferma Papa Francesco – “è venuto a mostrarci, a rendere visibile l’amore che Dio ha per noi. Per voi, per te, per te, per me… Un amore attivo, reale. Un amore che ha preso sul serio la realtà dei suoi. Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura. Un amore che si avvicina e restituisce dignità. Una dignità che possiamo perdere in molti modi e forme”. Ma Gesù “è un ostinato in questo: ha dato la vita per questo, per restituirci l’identità perduta”, rimarca il Santo Padre, consolando i reclusi ricordando loro che anche due discepoli come Pietro e Paolo “sono stati prigionieri”. Una cosa però li ha sostenuti in quella circostanza, evitando una caduta libera “nella disperazione”, “nell’oscurità” e nel “non senso”: la preghiera, “personale e comunitaria”.
Pregare è infatti la prima raccomandazione che il Papa lascia ai presenti. La preghiera “della madre, degli sposi, dei figli” – assicura – è come “una rete che sostiene la vita, la vostra e quella dei vostri familiari”. Perché “quando Gesù entra nella vita, uno non resta imprigionato nel suo passato, ma inizia a guardare il presente in un altro modo, con un’altra speranza. Uno inizia a guardare la propria persona, la propria realtà con occhi diversi. Non resta ancorato in quello che è successo, ma è in grado di piangere e lì trovare la forza di ricominciare”.
E “se in qualche momento ci sentiamo tristi, male, abbattuti”, Bergoglio invita a guardare “il volto di Gesù crocifisso”, al quale “tutti possiamo affidare le nostre ferite, i nostri dolori, anche i nostri peccati, tante cose che possiamo aver sbagliato…”. “Nelle sue piaghe, trovano posto le nostre piaghe”, aggiunge, quindi portiamole Lui affinché esse siano “curate, lavate, trasformate, risuscitate”.
Per farlo si può cominciare un po’ a “parlare”, suggerisce il Pontefice: “Parlate con i sacerdoti, parlate con i fratelli e le sorelle che vengono qui. Parlate con tutti quelli che vengono a raccontarvi di Gesù”. “La reclusione non è lo stesso di esclusione, che rimanga chiaro questo”, sottolinea il Papa, ma “parte di un processo di reinserimento nella società”. E passando in rassegna gli elementi che giocano “contro di voi” – sovraffollamento, lentezza della giustizia, mancanza di terapie occupazionali e di politiche riabilitative, violenza – domanda “una rapida ed efficace alleanza fra le istituzioni per trovare risposte”.
“Mentre si lotta per questo, non possiamo dare tutto per perso”, precisa subito, “ci sono cose che possiamo già fare ora”. “Qui, in questo Centro di Riabilitazione, la convivenza dipende in parte da voi – afferma -. La sofferenza e la privazione possono rendere il nostro cuore egoista e dar luogo a conflitti, ma abbiamo anche la capacità di trasformarle in occasione di autentica fraternità”.
“Aiutatevi tra di voi”, è quindi l’altro mandato del Pontefice. “Non abbiate paura di aiutarvi fra di voi. Il diavolo cerca la rivalità, la divisione, le fazioni. Lottate per andare avanti. Mi piacerebbe chiedervi di portare i miei saluti ai vostri famigliari. Alcuni di loro sono qui. È tanto importante la presenza e l’aiuto della famiglia! I nonni, il padre, la madre, i fratelli, la moglie, i figli ci ricordano che vale la pena vivere e lottare per un mondo migliore”.
Una parola di incoraggiamento va infine al personale del Centro, al quale Bergoglio ricorda che il compito più importante che essi possono svolgere in questo processo di reinserimento è “di rialzare e non di abbassare; di dare dignità e non di umiliare; di incoraggiare e non di affliggere”. Un processo che chiede “di abbandonare una logica di buoni e cattivi per passare a una logica centrata sull’aiutare la persona”, la quale “salverà voi da ogni tipo di corruzione e creerà condizioni migliori per tutti”.
Prima di dare la benedizione, il Papa chiede di pregare tutti in silenzio un momento. Ognuno a modo suo. Ognuno offrendo a Cristo le sue piaghe. Poi chiede altre preghiere per sé stesso, perché – dice – “ho anch’io i miei errori e devo fare penitenza”.