Cantare la pace in tempo di guerra. La sua musica è una piccola oasi di pace nel vasto deserto del conflitto israelo-palestinese. Per Noa la vera sfida è proprio questa: “cantare la pace in tempo di guerra. Io metto la mia arte a servizio di questa causa, collaborando con artisti arabi, partecipando a eventi, incontri, concerti per la pace. Questo è il mio piccolo contributo e ognuno può dare il suo” spiega la cantautrice israeliana. “So bene – aggiunge con un sorriso – che l’amore da solo non basta a dare risposte ai conflitti, specie a quello tra israeliani e palestinesi. Alla pace si arriva quando tutte le componenti della società collaborano, dalla diplomazia, all’economia, dalla cultura alla politica. Così si allontana la paura dell’altro e si trovano soluzioni. I musicisti da soli possono fare poco ma con la nostra arte possiamo costruire ponti sottolineando ciò che ci unisce piuttosto che ciò che ci divide”. “La cosa peggiore è non fare nulla, restare a guardare e molti artisti – dice con rammarico – lo fanno. Forse temono di perdere successo e popolarità. Posso capirli ma io sono più preoccupata di perdere l’anima del mio Paese, la sua speranza che è anche quella dei miei figli e del loro futuro”. Poco importa allora se le sue dichiarazioni le hanno provocato problemi sia in patria che fuori con qualche concerto cancellato. È la stessa cantante, in una “lettera aperta al vento” apparsa sul suo blog, a chiarire le sue posizioni: “ci sono solo due parti in questo conflitto, ma non sono Israeliani e Palestinesi, Ebrei ed Arabi. Sono i moderati e gli estremisti. Io appartengo ai moderati, ovunque essi siano. Loro sono la mia fazione. E questa fazione ha bisogno di unirsi!”. Per questo coraggio Noa è per molti “una voce e segno di speranza. E di questo – dichiara – ne vado fiera”. Sono tanti i giovani che la seguono. Una responsabilità che la cantautrice non declina, anzi.
I muri possono cadere. “L’approccio delle nuove generazioni verso il conflitto è di assuefazione – riconosce la cantautrice – molti giovani sono stanchi di questa guerra, quasi abituati, non credono più in un accordo. ‘Non cambierà nulla’ sono soliti ripetere, faticano a sperare, a trovare prospettive nuove di vita”. Ma qualcosa sta cambiando: “in Israele c’è anche chi, in una sorta di movimento sotterraneo, si impegna per cambiare la situazione, per guardare da un’altra angolazione e creare legami, relazioni con i giovani arabi. Penso che qualcosa di inaspettato possa sempre accadere, i muri possono cadere. Quando questo accadrà dovremo farci trovare pronti, essere lì per raccogliere i frutti che, è bene dirlo, non maturano subito”. La mente di Noa corre ai “tanti accordi e incontri della storia recente, per esempio quello di papa Francesco, in Vaticano con il presidente palestinese Abu Mazen e quello israeliano, Shimon Peres. Un tempo di maturazione è necessario per formare le coscienze verso un reciproco riconoscimento, la via migliore per arrivare a due Stati e a due popoli”.
“Il mio sogno?” Noa non ha esitazione. Risposta secca: “cantare in occasione della firma del trattato di pace tra israeliani e palestinesi. Lo cullo da sempre e non so quando potrà accadere. Ma non è questo il punto. Il punto è tutto quello che facciamo per realizzare questo sogno, ogni giorno, ogni istante con pazienza e determinazione”. Riprende il tema caro della sua famiglia. “Ho tre figli e cerco di dare loro un buon esempio, concreto e senza tanti ‘bla bla’. Quando i nostri figli ci vedono non perdere la speranza è quello il momento in cui diamo loro le chiavi di un futuro di pace. Facciamo spazio alla speranza. Anche con la musica”.