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È ancora tempo d’investire energie sull’educazione

CarabinieriDi Maurizio Calipari

Un brutto fine settimana di cronaca nera italiana quello appena trascorso. Su tutte le “bad news”, la notizia della morte “provocata” di due giovani, le cui storie non hanno alcun punto di contatto. Morte provocata da cause materialmente differenti, ma in entrambi i casi derivanti dal fantasma del disagio giovanile.
Il primo caso riguarda Gianluca Mereu, un ragazzo di 22 anni, incensurato, morto domenica mattina dopo essersi lanciato da una finestra del terzo piano della Questura di Milano. Il giovane si trovava lì per accertamenti, dopo una notte di tensione familiare: rincasato verso le 4 del mattino in stato di grande agitazione, si era messo a picchiare i due genitori, che avevano quindi avvisato la polizia. Gli agenti lo avevano rintracciato più tardi per strada e accompagnato in questura; permanendo il suo stato confuso, insieme agli operatori sanitari del 118 lo stavano trasferendo in ospedale. All’improvviso Gianluca sfugge ai suoi custodi e rapidamente raggiunge il terzo piano della questura, dove si butta da una finestra aperta, morendo sul colpo.
Un disagio difficile da interpretare il suo. Una vita apparentemente “normale”, comune a tanti giovani. Appassionato di thai boxe, praticava l’alpinismo e amava l’avventura. Diplomato, ma ancora senza lavoro, a spese dei genitori viaggiava molto all’estero alla scoperta di luoghi nuovi. Nella sua camera la polizia ha trovato una modica quantità di marijuana.
L’altro caso, tanto drammatico quanto “semplice”, è quello di Lamberto Lucaccioni, un sedicenne di Città di Castello (Pg), morto all’ospedale Ceccarini di Riccione dopo essersi sentito male in discoteca, per aver assunto (secondo la testimonianza degli amici) una pasticca di ecstasy. Evidentemente, si trattava di una pasticca “tagliata male”, preparata con sostanze particolarmente nocive da chi non si fa scrupoli di fare strage di giovani vite umane in nome del profitto personale, quantunque macchiato da sangue innocente. Ma se Lamberto fosse ancora in vita, pochi oggi parlerebbero di lui e dei tanti adolescenti che regolarmente passano le notti in discoteca (o in altri luoghi di raduno) a “impasticcarsi”, per provare l’ebbrezza dello “sballo”, pur rischiando la vita. Perché? Perché anche la sua, aldilà del tragico epilogo, è percepita come una storia terribilmente “normale”.
Gianluca e Lamberto, due vite prematuramente spezzate, cancellate da uno stile di vita che troppo facilmente giudicheremmo “sbagliato”. Certo! Ma anche da chi – attivamente o per incuria – ha contribuito a far assumere loro questo stile negativo. Gianluca e Lamberto, come simboli, rappresentano l’emblema di quella parte di gioventù insoddisfatta, disorientata, che fatica a trovare la propria strada all’interno della nostra società, a sua volta incapace, con ogni evidenza, di accompagnare e sostenere chi cresce cercando il proprio posto nella vita personale e sociale. Una società, la nostra, che formalmente ancora si dispiace che succedano queste tragedie, ma che di fatto non sempre si dimostra in grado di proporre modelli e valori che possano aiutare i giovani – sempre più vittime di questo perverso meccanismo di “normalità” – a costruire il loro futuro. Che razza di “normalità” è mai questa che produce morte e distrugge la speranza?
È ancora tempo, per le famiglie e per la comunità civile, d’investire importanti energie sull’educazione e la formazione umana di chi, crescendo, si affaccia alla vita. Ma perché queste siano efficaci, prima è necessario ritrovare punti di riferimento etico e culturale condivisi. Perché non basta imparare a “trasmettere” correttamente un messaggio, bisogna anche sapere cosa dire e testimoniarne la credibilità.