“O Matre mia, ecco che è venuta l’ora / de la mia Passione dura et forte; / ecco bisogna, Matre mia, che io mora / per liberare l’omo da la morte / et per conpire coll’omo et Dio la pace / che io mora al Supremo Patre piace. / Et però, Matre, te voglio pregare: / piacciate de mi morte contentare”. Sono le parole di una sacra rappresentazione di origine medievale con le quali il Cristo annuncia alla Madonna il proprio sacrificio per la salvezza dell’umanità. Sono anche le parole con le quali una madre apprende dell’imminente morte del giovane figlio. Natura umana e divina si intrecciano e si confondono nel dramma salvifico che ha segnato per sempre la vita terrena ed eterna degli uomini. Un’unica Passione che accomuna la creatura al Creatore, con la fragilità dell’uomo che diventa fragilità di Dio, i dolori e le sofferenze dell’umanità segnata dal peccato e dalla morte che diventano i dolori e le sofferenze di Colui che senza peccato si è consegnato all’ingiusta condanna.
È un testo dalle radici antichissime, “Passio Hominis”, che il regista Antonio Calenda porta quest’anno sulla storica Piazza del Duomo di San Miniato, dal 17 al 22 luglio, per la Festa del teatro, organizzata da 69 anni dall’Istituto del dramma popolare oggi diretto da don Piero Ciardella, e che sarà riproposto nella prima serata del Convegno ecclesiale nazionale, il 9 novembre prossimo, a Firenze.
“Sono certo che la visione di quest’opera – spiega il cardinale Giuseppe Betori che in qualità di arcivescovo del capoluogo toscano si prepara ad ospitare l’appuntamento decennale della Chiesa italiana – non mancherà di suscitare emozioni e di stimolare l’approfondimento dei temi del Convegno”. Del resto, il Vangelo, paradossalmente scandaloso per chi non attinge alla sapienza di Dio, annuncia una nuova visione dell’uomo, che trova appunto “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, come recita il titolo di “Firenze 2015”.
Il testo messo in scena a San Miniato deriva da uno dei manoscritti rinvenuti una quarantina di anni fa dallo stesso regista presso la Biblioteca nazionale di Roma, risalenti all’opera di una monaca amanuense, Maria Jacoba Fioria, che nella seconda metà del Cinquecento raccolse varie tradizioni orali della Passione per un esempio altissimo di traduzione in forma manoscritta delle Sacre rappresentazioni che durante il Medioevo erano messe in scena da confraternite e corporazioni. Parole contaminate da neologismi e forme arcaiche di non facile lettura, che nel momento in cui vengono pronunciate e recitate acquistano una comprensibilità e una sonorità eccezionali. Un testo potente, bisognoso soltanto di contemporaneità. Infatti, “nessun testo classico – spiega Calenda – può ritrovare plausibilità sulla scena di oggi se non ricondotto al presente storico attraverso la comprensione delle corrispondenze emotive e metafisiche della storia dell’uomo”. Una riflessione che ha spinto all’idea “di ambientare la Passione nell’Italia agricolo pastorale del Dopoguerra, con il suo senso di smarrimento e il suo profondo desiderio di rinascita”.
In un allestimento scarno, dove una parte degli spettatori si ritrova al centro della scena a condividere i praticabili con gli attori, prendono corpo i quadri della Passione riadattati ai tempi di una vecchia macchina per cucire a cui lavora Maria, di una barbieria frequentata da Caifa, di farisei che ballano il Tango, di un povero sbandato che offre al Cristo la possibilità d’istituire l’Eucaristia.
Una attualizzazione che sottolinea ancora con più forza il valore universale e senza tempo della Passione di Cristo e che in questo caso propone anche una Passione al femminile, dove Maria è il concentrato, l’essenza di tutti i dolori delle donne, madri e figlie.
La messa in scena di Calenda è anche piena di citazioni cinematografiche, volute o meno. A partire dall’unico fondale, un telo bianco che fa da sipario, ma anche da teatro d’ombre e di avanspettacolo, una “vela incantata” insomma: uno schermo cinematografico. Il povero è molto felliniano nel suo incedere a passo di musica clownesca. La ragazza angelo ricorda quella di Pier Paolo Pasolini in “Uccellacci e uccellini”. Per non parlare della Madonna, che a proposito di Pasolini assomiglia molto, nel velo nero e nell’abbigliamento meridionale in generale, a quella del “Vangelo secondo Matteo” interpretata, per una scelta alquanto significativa, dalla madre stessa del regista.
E che dire della crocifissione con il rumore metallico fuori scena del martello sui chiodi fortemente amplificato, mentre il Cristo muore contorcendosi al suono di una raffica di mitra altrettanto amplificata. Veramente efficace, grazie anche alla musica che segue e che guarda caso è la settecentesca “Sarabande” di Georg Friedrich Handel che è anche la colonna sonora scelta da Stanley Kubric per il suo “Barry Lyndon” per dare il senso della nostalgia, della malinconia e dell’ineluttabilità del destino. Persino Giuda è cinematografico nel suo essere a metà strada tra un bounty killer a caccia di taglie con tanto di cappottone stile western e un nazifascista in abito e camicia neri. Alla fine non c’è una resurrezione vera e propria, ma a fronte di un Cristo coperto da un lenzuolo bianco, già di per sé simbolo del Risorto, si avverte il vagito di un bambino a sigillare l’ultima parola sulla vita e sulla storia degli uomini.
Attori molto bravi, diretti con la consueta maestria da Antonio Calenda. Lina Sastri è semplicemente perfetta nel ruolo della Madre figlia del suo figlio, per dirla con Dante. Convincenti sia il Christo di Jacopo Venturiero che il Juda di Francesco Benedetto. Applausi ripetuti anche per tutti gli altri componenti una compagnia numerosa e di grande livello.