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Financial Times: la qualità paga

Un affare da un miliardo e 190 milioni di euro: sarebbe questa la cifra che verrà pagata in contanti dal gruppo giapponese Nikkei per acquistare dall’editore inglese Pearson il quotidiano economico “Financial Times”. La notizia ha fatto il giro del mondo in un baleno ed è giusto rifletterci anche in Italia, dove i nostri giornali piccoli e grandi vivono momenti di difficoltà, con calo di vendite, diminuzione degli introiti pubblicitari, utili che si azzerano e la necessità – spesso – di dichiarare lo stato di crisi, mettendo “fuori” centinaia di giornalisti. Con l’avvento di internet, le cose sono cambiate profondamente nel mondo della carta stampata. La già ridotta propensione degli italiani a recarsi all’edicola per comprare il proprio giornale si è ulteriormente contratta con l’arrivo in casa di miriadi di notizie on-line, gratuite, rapide, si potrebbe dire “usa e getta”. Mentre fino a un paio di decenni fa leggere il giornale era un tratto distintivo di persone di cultura, impegnate, motivate sul piano politico, sociale, sindacale, religioso (l’esempio della stampa cattolica è chiaro, in questo senso), oggi non sembra essere più “trendy” avere in tasca un quotidiano (o un settimanale diocesano!). Anzi, soprattutto tra i giovani, che leggono pochissimo, le preferenze vanno ai social network, ai blog, alla condivisione via Twitter, WhatsApp, Pinterest e così via.
Ma come ha fatto l’editore inglese a strappare ai giapponesi quella cifra colossale? La risposta sembra essere nel processo inarrestabile di “globalizzazione” delle informazioni – in questo caso – economiche, gestite dal “Financial Times” in maniera qualificata e professionale. Il giornale inglese, infatti, nonostante la crisi globale dei media tradizionali, vanta bilanci in attivo, una tiratura di 737mila copie delle quali il 70% digitali, 500 giornalisti distribuiti in una cinquantina di sedi in giro per il mondo. Insomma, un vero giornale “mondiale”, in grado di dare informazioni di prima mano, di alto livello, “sopra le parti”, con l’unico intento fondamentale di poter offrire quello che nessun altra realtà giornalistica e nessun sito internet (neanche i più qualificati della concorrenza, quali Bloomberg o Reuters) può offrire a tutte le latitudini e longitudini del globo.
Per questo i giapponesi hanno aperto il portafoglio per una cifra del genere: perché hanno intravisto i presupposti per un potenziamento della propria offerta di informazioni globali, entrando per di più nel cuore della seconda city finanziaria mondiale dopo New York: quella di Londra. Si tratta di una grossa lezione anche per noi italiani, perché mostra che la qualità paga; che il mercato quando è ben gestito e trasparente funziona e permette di fare utili; che il superamento delle ideologie nelle punte più estreme (liberalismo da un lato e collettivismo dall’altro) genera un confluire di culture anche distanti ma convergenti. D’ora in poi possiamo attenderci un po’ più di Giappone in Europa, dove già sono arrivati con i loro capitali gli arabi, i cinesi, i russi. Anche nel nostro caro “stivale” dovremo iniziare a ragionare in termini globali, se vogliamo sopravvivere e crescere. Ma senza rinunciare ai nostri valori e ai nostri patrimoni secolari.
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