Lo sguardo verso il cristianesimo d’Oriente si rinnova nella XXXVI edizione del Meeting di Rimini con numerose iniziative, tra cui la mostra Per me vivere è Cristo dedicata al metropolita ortodosso Antonj di Surozh (1994-2003), vescovo della Chiesa Ortodossa russa in Inghilterra, visitabile Riminifiera dal 20 al 26 agosto.
L’attualità della figura di Antonj è stata raccontata a ZENIT da Giovanna Parravicini, curatrice della mostra assieme a Aleksandr Filonenko, Dmitrij Strozev, Konstantin Sigov, Francesco Braschi e Adriano Dall’Asta.
Ci può in primo luogo tracciare un breve identikit del metropolita Antonj?
Andrej Bloom (1914-2003) nasce a Losanna nella famiglia di un diplomatico russo. Dopo un’infanzia fiabesca trascorsa in Persia, dopo la rivoluzione condivide le sorti dell’emigrazione russa, i suoi disagi economici e sociali, non così dissimili dalle vicende di molti profughi di oggi. Ragazzino della banlieue parigina – oggi lo si definirebbe un disadattato – a quattordici anni Andrej legge quasi per scommessa il Vangelo (il più corto, quello di Marco), per poter dire una volta per tutte che Dio non esiste, ma d’un tratto percepisce, senza alcun misticismo ma con grande realismo, che Cristo è lì davanti a lui, presente. La «ferita» di questo incontro segnerà per sempre la sua vita: «… sentii che nella vita non poteva esistere altro compito se non quello di condividere con gli altri la gioia che trasfigura la vita… e allora, ancora adolescente, a luogo e fuori luogo, sui banchi di scuola, in metrò, ai campi estivi cominciai a parlare di Cristo, così come mi si era rivelato: come la vita, la gioia, come il significato, come qualcosa di talmente nuovo da rinnovaretutto; e se non fosse sconveniente attribuire a sé le parole della Sacra Scrittura, io potrei dire insieme a san Paolo: Guai a me se non annuncio…». Si laurea in medicina, pronuncia in segreto i voti monastici prendendo il nome di Antonij e intanto partecipa attivamente alla Resistenza in Francia; gli viene affidata una missione in Inghilterra, diviene sacerdote, vescovo, esarca della Chiesa ortodossa russa per l’Europa occidentale, annuncia instancabilmente la fede sia nella diocesi affidatagli, in Gran Bretagna, sia anche in Unione Sovietica, nei brevi periodi di soggiorno legati ai suoi compiti ufficiali in seno al Patriarcato di Mosca.
In che modo Antonj fu un campione di libertà religiosa?
In tutta la vasta opera del metropolita Antonij non c’è neppure una riga scritta a tavolino: l’imponente mole dei testi che ci sono rimasti è costituita unicamente da conversazioni, omelie, lezioni, lettere – la registrazione di un’esperienza, di «quello che è maturato nella mia anima». È questo il cuore pulsante della sua teologia, che oggi viene definita «teologia dell’incontro, della comunione», e gli è valsa prestigiosi riconoscimenti e lauree ad honorem, sebbene il metropolita Antonij non si sia mai considerato un teologo, bensì un pastore.
«Siamo realmente testimoni che il Signore è vivo, che io sono Suo, che Egli mi è caro, vicino, che è la mia vita, la verità della vita, l’unica verità?»: chi incontrava, ascoltava il metropolita Antonij aveva la percezione di un uomo consumato, ardente di questa passione di testimonianza, trasfigurato da essa e perciò capace di trasfigurare il mondo.
«Non cercare di rendere gli altri simili a noi, ma condividere con loro la gioia trasfigurante della conoscenza di Dio e della comunione con Lui, affinché gli altri possano diventare se stessi, altrettanto dissimili da noi quanto unici agli occhi di Dio», scrive nel 1990 in risposta a una lettera dei giovani ortodossi del movimento SYNDESMOS. E nel 2000, in una conversazione, afferma: «Mi sembra che dobbiamo radicarci in Dio e non aver paura di pensare e sentire con libertà…». È la sua instancabile predicazione dell’autentica missionarietà, che, come ripeteva spesso, non cede a tentazioni di «proselitismo», cioè non impone dei propri schemi ma collabora al disegno di Dio, lascia spazio all’azione della grazia divina che ci supera e ci precede continuamente.
L’arcivescovo Rowan Williams, nella sua introduzione al catalogo della mostra ha definito Antonij «una personalità di grande complessità, non un uomo blandamente pio o semplicemente “simpatico”; ma dentro e attraverso tutte le lotte interiori e le tensioni che le persone più vicine a lui conoscevano bene, ha accettato di rendersi trasparente a Cristo, così che nella sua presenza si sentiva sempre la realtà assoluta del Signore». Proprio questa centralità di Cristo nella sua vita, questo suo essere di fronte a Lui, e in questo modo al «roveto ardente», cioè al misterioso segno della presenza divina che ogni persona, ogni realtà incontrata costituisce, è stato e continua ad essere il simbolo della libertà con cui si accostava all’altro, e nel contempo un interrogativo esigente, che non può lasciare indifferenti, che riapre la ferita dell’umanità in ciascuno e lo sospinge ad aprirsi al Mistero. Proprio per questo il suo annuncio si è dimostrato altrettanto efficace sia in un contesto laicista come l’Europa Occidentale, sia in un mondo devastato dall’esperimento ateista come l’Unione Sovietica e la Russia post-sovietica.
Antonj fu vescovo ortodosso all’estremo Occidente d’Europa: potremmo definirlo un ponte tra due culture cristiane o, al limite un pioniere dell’ecumenismo?
Le dirò di più: la figura e l’esperienza del metropolita Antonij sono diventate in quest’ultimo anno occasione di un sorprendente incontro e di un lavoro svolto insieme da un centinaio di studenti universitari, ortodossi, cattolici o semplicemente in ricerca, provenienti da Italia, Francia, Gran Bretagna, Russia, Bielorussia e Ucraina, per approfondire alla luce dei suoi scritti e della sua personalità i temi fondamentali della vita, della cultura, della società e della fede. L’aiuto della fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, che ha sostenuto da ogni punto di vista l’iniziativa, ha reso possibile un seminario di lavoro ai primi di marzo, e ora la partecipazione di questi giovani alla mostra del Meeting.
Tra i tanti richiami del metropolita Antonij all’unità, intesa sempre come dimensione del cuore, e quindi da perseguire nella persona, nella comunità cristiana, all’interno dell’Ortodossia mondiale, oltre che tra confessioni e religioni diverse, le cito questa espressione che mi sembra molto evocativa: «Noi, cristiani, siamo divisi tra noi; ma è poi vero che siamo divisi?.. Il cristianesimo è come una foresta. Tutte le piante affondano le radici nel terreno, nello stesso terreno, nello stesso suolo; ad alimentarle è la stessa vita che il Signore ha infuso nel terreno. E di lì crescono i tronchi. Tronchi che si sviluppano in parallelo, ma si protendono tutti verso la luce, il sole, il cielo; e per quanto siano separati fra loro, vivono tutti dell’unità della radice e della meta cui tendono… Se solo lavoreremo affinché la meta sia effettiva, reale, prima o poi le cime si toccheranno, e avverrà l’unità…».
Ed è impressionante come la presenza di questa «meta effettiva, reale» verso cui protendersi, verso cui crescere, abbia permesso in quest’anno di una crudele guerra combattuta in Ucraina un lavoro comune e uno scambio sincero di esperienze tra giovani e adulti che normalmente si guarderebbero con diffidenza, ostilità. Dal mio osservatorio, qui a Mosca, posso assicurarle che è un vero miracolo, che riempie di speranza e traccia una fondamentale prospettiva di cammino.
Il suo è un cristianesimo vissuto nella fedeltà all’Ortodossia russa, e nel contempo universale, capace di trovare echi profondi nell’esperienza di ogni cristiano: si pensi all’amicizia di Antonij con l’arcivescovo Rowan Williams, ex primate della Chiesa anglicana, o alle impressionanti assonanze con la concezione di teologi cattolici suoi contemporanei, tra cui don Giussani.
In che rapporti fu con la Chiesa Cattolica?
«Il Signore ci ha presi come una semente, per spargerci in tutto il mondo». Anche nei suoi non facili rapporti con il mondo cattolico bisogna partire di qui, dalla sua consapevolezza di un «mandato» ricevuto attraverso la dolorosa esperienza dell’emigrazione. Non mancarono, negli anni dell’infanzia, momenti traumatici nei rapporti con l’entourage cattolico, come l’offerta fatta alla sua famiglia, nel 1923, di una borsa di studio a patto che si convertisse al cattolicesimo. «Ricordo che mi alzai e dissi alla mamma: andiamo, non voglio essere venduto», racconterà in seguito il metropolita.
Eppure, negli anni anche queste penose impressioni furono superate in ben altra prospettiva, quella di un incontro libero e certo, come il metropolita disse nel 1979, parlando nella cattedrale di Chartres davanti a un uditorio composto da esponenti di diverse confessioni religiose: «Le nostre comunità cristiane si sono divise molti secoli fa. Per lungo tempo ci siamo voltati le spalle gli uni gli altri e ci siamo allontanati sempre più. Poi ci siamo fermati. Successivamente abbiamo cominciato a volgerci nuovamente gli uni verso gli altri, per vedere chi era quel nostro fratello che poi ci era diventato estraneo, e sovente anche nemico. Ma eravamo troppo lontani per poter distinguere i suoi lineamenti. Non eravamo più in grado di discernere l’immagine di Dio in coloro da cui ci eravamo allontanati o che ci avevano abbandonato. Ed è cominciata una nuova peregrinazione, una lunga peregrinazione che ci ha nuovamente ravvicinato. Oggi siamo abbastanza vicini per avere la possibilità di guardarci l’un l’altro, di guardarci negli occhi, di affiggere lo sguardo nel profondo dei nostri cuori vivi, di scrutare le nostre anime. Di valutare le azioni e vedere in tutto questo una libertà tesa a Dio.
Ma com’è difficile essere giusti! Il primo necessario atto di giustizia consiste nel riconoscimento all’altro del diritto di essere se stesso, e non semplicemente una brutta copia di ciò che siamo noi. L’altro è una creatura di Dio, ma non è creato a nostra immagine. È rivolto a Dio, non a noi. Deve diventare se stesso, e non semplicemente adeguarsi alle nostre richieste».
Una profezia di cui oggi più che mai abbiamo bisogno per riprendere il cammino ecumenico, non solo, ma anche per riprendere il dialogo con il mondo e la società.
Come sarà strutturata la mostra?
La mostra è costruita su due parole – svolta e incontro – rese nell’allestimento attraverso un percorso fatto di svolte e di improvvisi slarghi, in cui ci si imbatte in volti, personaggi e storie. Le sei sezioni del percorso rappresentano altrettante svolte segnate nella vita di Antonij da incontri, che sembrano talvolta strani o incomprensibili ma spalancano via via la profondità evangelica della realtà e di ogni incontro di cui è intessuta l’esistenza.
Anche la scelta dei colori dell’allestimento – il nero e l’azzurro – sottolinea il duplice registro dell’incontro, che è sempre un incontro umano e insieme l’incontro con il Risorto: «… è l’istante in cui le persone si trovano faccia a faccia, a volte per un brevissimo istante, ma nello stesso tempo anche per sempre, poiché, quando ci si incontra con il cuore, con fede, carità, con una speranza comune, nel segno della comune croce, nella luce della comune vittoriosa resurrezione che verrà, ormai non ci si può più separare, le distanze terrene non separano più le persone».
Questo percorso è esattamente ciò che il metropolita Antonij definiva «scuola»: innanzitutto una scuola dello sguardo. Un percorso che si riassume nel gigantesco telo ricamato da un’artista russa, Marina Bel’kevič, che segna l’inizio e la fine del percorso: visto a rovescio, appare solo un insensato intrico di fili (gli avvenimenti così ci vengono incontro ogni giorno); visto a diritto (nello sguardo di Dio), vi si legge la scena di Cristo che scende agli inferi per salvare l’umanità e portarla per sempre con sé.
Una mostra – da ultimo – all’insegna dell’«incontro»: è infatti proponibile in parrocchie e centri culturali per la possibilità di approfondimento personale e comunitario, e in particolare come uno strumento per accostare persone e comunità ortodosse, di paesi slavi. L’altro, il diverso, il nuovo, può veramente diventare un’occasione di riscoperta della nostra tradizione, e nel contempo aiutarci a comprendere che cosa sia l’ecumenismo, «Cristo tutto in tutti», rispondente al bisogno di infinito dell’uomo e all’unità irriducibile del suo cuore.