Un esodo. Mai come adesso, dove una miriade inesausta di persone cammina compatta verso quella che ritiene la propria terra promessa, l’immagine biblica si presenta più forte, più nitida, più incarnata.
Non la parola spolpata, svilita, logorata dall’abuso (“l’esodo d’Agosto”, “gli esodati”, “l’esodo dei docenti”), ma il ritorno al significato autentico, immenso, che racchiude la moltitudine, la fuga, l’esilio, l’ineluttabilità, la speranza.
Non la parola spolpata, svilita, logorata dall’abuso (“l’esodo d’Agosto”, “gli esodati”, “l’esodo dei docenti”), ma il ritorno al significato autentico, immenso, che racchiude la moltitudine, la fuga, l’esilio, l’ineluttabilità, la speranza.
Sono un fiume in marcia. Uomini, donne, bambini. Procedono verso Nord, in fuga dalla guerra che ha divorato la loro patria, concorrenti di una spaventosa lotteria in cui hanno sfidato una morte probabile per scampare a morte certa. E “Solo la morte potrà fermarci”, ripetono i migranti, come un mantra propiziatorio, come un giuramento inesorabile. Lo devono a loro stessi, ai bambini che continuano a nascere, agli anziani che timonano in carrozzella, ai tanti che sono caduti prima di arrivare a percorrere quel nastro d’asfalto che per noi è autostrada, per loro è il sentiero di mattoni gialli che porta al Regno di Oz.
Un popolo intero si sta muovendo in mezzo all’Europa, attraversando Paesi che si dimostrano poco ospitali, ma che scontano una sicura impreparazione nel gestire una simile prova. Come una marcia per la pace, per i diritti, ma senza che vi siano sigle sindacali o associazioni a organizzarla, i profughi affrontano più di 200 chilometri, cinquanta ore di cammino, fino al confine. Colpisce la determinazione serena degli sguardi e la cura degli abiti, delle pettinature. Non un esercito di invasori straccioni, di questuanti maleodoranti, di “volgo disperso che nome non ha” come farebbe comodo pensare: sono persone come noi, che hanno perso tutto quel che avevano nel loro Paese ma non la dignità.
E ora ci guardano e ci chiedono di riconoscergliela. Sono poveri perché resi poveri, eppure non mendicano: marciano. Lenti e inesorabili non possono non incutere timore: e non per la minaccia immaginaria d’invasione che si paventa, quanto per il loro ricordare a tutti che esistono, che ci sono, che non possiamo far finta che non ci riguardi perché tanto la guerra è sempre in un posto lontano che nemmeno si sa bene dove sia sulla carta geografica. Avanzano un passo alla volta, brandendo la bandiera azzurra e stellata dell’Europa Unita: quell’entità che per molti europei è spesso solo un’espressione non geografica ma monetaria, il cui unico scopo per la vulgata corrente è quello di depredare i cittadini a colpi di regolamenti burocratici ottusi. E invece, per tutte queste persone, l’Europa è una concreta, tangibile, unica speranza di avere un futuro altrove negato. Ci credono più loro di noi.
Scorrono i ricordi di altre marce simili, di umanità disperata che si allontanava da un disastro in cerca di aiuto, in cerca di una possibilità di sopravvivenza. Come dopo l’uragano Katrina, le immagini delle migliaia di sfollati che attraversavano i ponti sembrava la scena di un qualunque film apocalittico. Solo che nella fiction del grande schermo le comparse sono moltiplicate dalla tecnologia digitale, nella realtà della vita le fila si ingrossano spontaneamente a ogni passo e ogni individuo ci chiama all’accoglienza, all’ospitalità, all’incontro.
“Migranti e rifugiati non sono pedine sullo scacchiere dell’umanità”, aveva ammonito Papa Francesco nel settembre di due anni fa, invocando “il reciproco aiuto tra Paesi, con disponibilità e fiducia, senza sollevare barriere insormontabili”, dal momento che “nessun Paese può affrontare da solo le difficoltà connesse a questo fenomeno”. Se davvero l’Europa si fonda su incontrovertibili radici cristiane, il momento di dimostrarlo è qui ed ora: si scelga se farne la propria carta d’identità o un epitaffio.