Deportati, nel vero senso della parola: in 1.500, secondo le cifre ufficiali. In fuga dalle proprie case, con addosso solo gli abiti e qualche oggetto personale: in diverse migliaia, forse decine di migliaia. Anche l’America Latina ha la sua emergenza profughi, che corre lungo la caldissima frontiera tra Colombia e Venezuela. Una grave crisi umanitaria, dentro uno scontro diplomatico tra i due Paesi confinanti, dalle prospettive imprevedibili, riguardo al quale anche Papa Francesco all’Angelus di domenica 6 settembre ha espresso la sua preoccupazione.
Una deportazione di massa. Il tutto è iniziato lo scorso 21 agosto con la decisione del presidente del Venezuela Nicolás Maduro di chiudere la frontiera con la Colombia. La motivazione ufficiale: gli sconfinamenti delle bande paramilitari colombiane di destra e le continue attività di contrabbando. Del resto, che la frontiera tra i due Paesi – oltre 2.200 chilometri, perlopiù di foresta o zone montagnose – sia sempre stata un colabrodo, non è un mistero. Ma il presidente venezuelano non si è limitato a questo. La guardia venezuelana, la milizia controllata direttamente da Maduro, ha dato inizio ad una vera e propria deportazione di massa di colombiani. In molti casi, ha riferito la Commissione giustizia a pace del Venezuela, in un messaggio firmato dal presidente mons. Roberto Lückert León, queste persone sono state “obbligate ad uscire dal Paese in modo violento, senza le loro cose né alimenti, molti di loro solo con i vestiti che indossavano”. A questo si unisce il dramma di “vedere famiglie separate, soprattutto madri e padri che sono stati obbligati a lasciare i loro figli minorenni in territorio venezuelano”. Ai deportati si sono aggiunti quelli, ancor più numerosi, che sono scappati per tornare nel proprio Paese d’origine. E siccome sono ben 5 milioni i colombiani residenti in Venezuela, è evidente che l’emergenza umanitaria potrebbe dilatarsi a dismisura.
Colombiani esiliati due volte. “Si tratta di una situazione estremamente seria e preoccupante – risponde da BogotàDimitri Endrizzi, originario del Trentino, docente in relazioni internazionali all’Università -. I numeri sono sicuramente molto più alti di quelli ufficiali. Come spesso accade a fare le spese di giochi politici sono i più poveri e indifesi. Le principali vittime sono tantissime persone paradossalmente esiliate due volte”. Molti i colombiani che, a causa della guerriglia, si sono rifugiati negli anni nell’allora più ricco e sicuro Venezuela. Le politiche cháviste verso le classi popolari hanno fatto il resto. Benzina praticamente regalata, beni alimentari a prezzo stracciato, sussidi, documenti e cure sanitarie garantite.
Una prova di forza di Caracas. Le motivazioni date dal governo di Caracas non sembrano in realtà convincenti, spiega il docente. “Il contrabbando da quelle parti c’è sempre stato, gli sconfinamenti dei paramilitari pure. Circolano varie ipotesi sui motivi dell’operazione e tutte portano a ragioni interne al Venezuela. Qualcuno pensa che questa sia una prova di forza di Maduro e della sua guardia venezuelana nei confronti del suo rivale interno, il presidente della Camera Cabello, che controlla l’esercito ufficiale. Qualcun altro parla di oscuri motivi legati al narcotraffico. Infine, la spiegazione più banale, ma forse la più plausibile, è quella legata al disastroso stato dell’economia venezuelana dopo il crollo del prezzo del petrolio. Nei supermercati ci sono file lunghissime, manca il cibo. I colombiani sono di troppo, visto che le risorse scarseggiano. Sullo sfondo le imminenti elezioni legislative”.
Incerta reazione politica. Intanto la situazione, nelle città di Cucuta e Villa del Rosario è di piena emergenza umanitaria. Oltre tremila, secondo l’Onu, le persone ospitate in alberghi e palestre. “Mancano però le prospettive – continua Endrizzi -, in gran parte queste persone non hanno competenze, sono state mantenute attraverso i sussidi governativi di Caracas. Pesante anche la situazione per molti piccoli imprenditori, abituati a lavorare al di là della frontiera. Conosco il caso di un signore che era appena riuscito a comprarsi una ruspa e l’aveva parcheggiata in Venezuela. Ora non può più lavorare”. Problematiche anche la trattative politiche. Il presidente colombiano Juan Manuel Santos ha avuto finora una atteggiamento altalenante, tra inviti al dialogo e tweet di fuoco. In ogni caso alle parole non seguono fatti: “In parlamento – dice Endrizzi – pende una mozione di sfiducia sulla testa del ministro degli Esteri, María Ángela Holguín. E qualche ragione l’opposizione ce l’ha. In questo momento a Santos preme soprattutto il felice esito delle trattative di pace con le Farc. Obiettivo fondamentale, in effetti. E siamo al paradosso che proprio il Venezuela è Paese garante del negoziato”. Intanto a Quito, capitale dell’Ecuador, è in corso un faccia a faccia tra la Holguín e la sua omologa venezuelana, Delcy Rodríguez, con l’obiettivo di preparare il terreno a un incontro tra i due presidenti.
Il comune appello dei vescovi. Intanto, però, si moltiplicano gli appelli perché prevalga il dialogo tra i due Paesi. Le voci più forti sono arrivate dalla Chiesa, che attraverso la pastorale e la Caritas è in prima linea anche nell’accoglienza e nell’organizzazione degli aiuti. Soprattutto, i vescovi dei due Paesi stanno parlando con una voce sola e sono state numerose in queste settimane le prese di posizione pubbliche (27 agosto, 1 settembre, 4 settembre). Le due Conferenze episcopali si sono incontrate lo scorso 3 settembre ed hanno insieme chiesto ai Presidenti dei due paesi di incontrarsi. “Questa dolorosa situazione non può andare avanti e finire in una crisi umanitaria – ha affermato il presidente della Conferenza episcopale del Venezuela, mons. Diego Rafael Padrón -. Noi contribuiremo a garantire l’assistenza dei deportati perché la Chiesa è una sola”.