Di Nicola Salvagnin
L’Egitto sorride: sotto il suo mare è stato scoperto un gigantesco giacimento di gas naturale. L’Italia sorride: a scoprirlo è stata il nostro Eni, una delle aziende al mondo con maggiori competenze e tecnologie per l’esplorazione di nuovi giacimenti. L’Italia potrebbe sorridere una seconda volta, se questo metano egiziano verrà finalmente estratto: l’Egitto è un Paese già dotato di infrastrutture di trasporto, stoccaggio e liquefazione del gas, quindi potrebbe diventare nel giro di due-tre anni un nostro fornitore importante. Questo diminuirebbe la nostra dipendenza dal gas russo e algerino, due Paesi che per varie ragioni non ci lasciano dormire sonni tranquilli.
Tutto bene dunque? Beh, anzitutto c’è da considerare che tra il dire e il fare ci sono di mezzo tra i 7 e i 10 miliardi di investimenti in infrastrutture estrattive e di trasporto. Ma ci sono anche ottime possibilità che questi soldi vengano trovati: l’Egitto ha un enorme bisogno di questo metano, può generare entrate per 35 miliardi di euro ogni anno. Che sono tanti soldi per tutti, soprattutto per i non ricchissimi egiziani.
La questione è un’altra. In questi ultimi anni sono stati scoperti grandi giacimenti di petrolio e gas naturale in mezzo mondo, rassicurando il pianeta sulle sue disponibilità di idrocarburi e alimentando gli entusiasmi dei Paesi dove avvenivano le scoperte. Solo che c’è un’enorme differenza tra scoprire giacimenti, e metterli in produzione. Occorrono investimenti più o meno colossali: tecnologie, infrastrutture, competenze, mercati di sbocco. Se non ci sono, il tesoro rimane dentro la caverna. Ma latitano i benefici sognati.
Israele e Cipro hanno, nel loro mare territoriale, grandi giacimenti di metano. Ma non è facile estrarre in mezzo al Mediterraneo, e poi distribuire come? A chi?
Il Brasile ha sognato sull’onda della notizia degli sterminati giacimenti petroliferi trovati in mezzo all’Atlantico: lì sono rimasti. Sopra il Circolo Polare Artico c’è di tutto, meno che la possibilità di prenderselo. Al largo del Mozambico si nuota nel petrolio: si nuoterebbe, se qualcuno vuole investire decine di miliardi di euro senza avere garanzie che quell’investimento sarà fruttifero.
Già, perché poi gli idrocarburi vanno venduti a qualcuno che te li compri a prezzi remunerativi. Il fatto è che, in questo momento storico, i prezzi sono ai minimi e probabilmente lo saranno a lungo. Si investe in pozzi estrattivi che costano 50 euro al barile, senza sapere se poi ne prenderai di più? E che possibilità di competere c’è con la produzione dei Paesi del Golfo, il cui costo estrattivo si aggira sull’euro a barile (tra Arabia e Iran basta la buca fatta da un cane per far zampillare petrolio)?
Si pensi che in Nigeria il metano estratto con il petrolio viene bruciato sul posto: non si saprebbe che farne.
Morale della favola: Eni o chi per esso cercano e a volte trovano. Poi si rivendono in tutto o in parte i diritti di estrazione, se trovano qualcuno disposto a comprarli. Altrimenti piantano una bandierina e lasciano tutto fermo lì, in attesa di tempi migliori. Per l’Eni, un sacrificio. Per i Paesi magari del Terzo mondo, che per qualche anno hanno sognato di planare nel Primo con volo di sola andata, una cocente delusione. Mitigata dal fatto che, prima o poi, la caverna di Ali Babà potrebbe riaprirsi e trasformare nomadi cammellieri arabi nei signori più ricchi della Terra.
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