Ha rivinto le elezioni (a otto mesi dalle precedenti, a due mesi dal referendum sul Piano Ue “aiuti in cambio di riforme”), trasformando il voto parlamentare in un plebiscito su se stesso. Ha sconfitto le opposizioni politiche (di centrodestra e di centrosinistra) anche grazie a una campagna elettorale che ha negato le originarie promesse “no austerità” con le quali era salito al potere. Ha sbaragliato gli oppositori interni, confluiti in un nuovo partito che non ha superato lo sbarramento del 3%, restando fuori dal Parlamento. Alexis Tsipras torna dunque alla guida del governo greco con la medesima coalizione che mette insieme la sinistra estrema di Syriza (145 seggi) e la destra nazionalista di Anel (10 seggi), disponendo di una maggioranza di 155 seggi su 300 nell’assemblea ateniese.
Fin qui i dati di fatto. Ma le votazioni elleniche dicono anche altro. A cominciare – inutile negarlo – da un crescente scollamento tra cittadini e “palazzo”, forse persino tra elettori e Syriza. Poco più della metà degli aventi diritto si è recato alle urne, con un’astensione lievitata in pochi mesi di 10 punti percentuali: anche i greci, dunque, come gli elettori di quasi tutti i Paesi europei, non avvertono come decisiva la propria partecipazione democratica al momento elettorale. Lo ha confermato monsignor Francesco Papamanolis, presidente dei vescovi cattolici di Grecia: “Il dato dell’astensione è impressionante” e “indica il grado di sfiducia del popolo verso i politici e la sua disperazione circa il futuro del Paese”.
In secondo luogo si può osservare che Tsipras ha certamente stravinto le elezioni, rafforzandosi politicamente grazie alla conferma popolare. Ma il quadro economico e finanziario non cambia, i debiti restano, i ritardi complessivi del Paese non svaniscono, i flussi migratori non s’arrestano… Ovvero le elezioni di per sé non risolvono alcuno dei problemi greci. A Tsipras non resta che realizzare quelle riforme da tempo promesse (ai suoi cittadini, all’Ue, ai creditori internazionali) e sottoscritte a luglio in sede europea per ottenere i fondi necessari ad evitare il default. Glielo ha ricordato immediatamente Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo: “Molte delle sfide dell’Unione europea nel suo insieme sono le stesse che ha di fronte la Grecia”, fra cui “la crisi dei rifugiati e la creazione di una crescita sostenibile. Confido che il nuovo governo contribuirà in modo costruttivo nella ricerca di soluzioni” a questi problemi. Tusk si augura che il voto “assicuri la stabilità politica necessaria” per le riforme e per la ripresa economica e sociale ellenica.
Occorre peraltro notare che Alexis Tsipras ha dimostrato di conoscere bene i greci: si era dimesso a fine agosto per ottenere un nuovo, ampio mandato. In questo senso ha vinto la propria scommessa. E questo è un punto a suo favore per governare – se lo volesse – con autorevolezza ed efficacia.
Restano almeno un paio di quesiti sollevati dal voto del 20 settembre. Queste nuove elezioni in Grecia hanno infatti ottenuto un’attenzione internazionale ben più modesta delle precedenti; se ne è discusso poco nelle sedi istituzionali Ue; la stampa tedesca, francese, polacca, italiana, britannica o nordica non vi ha dedicato le prime pagine. Può essere un segnale che, tradotto in termini un po’ sbrigativi, dice: la Grecia comincia a essere un insistente “tormentone”, dinanzi al quale il coinvolgimento, la benevolenza, la “pazienza” altrui (governi degli altri Paesi europei, istituzioni comunitarie, creditori, opinioni pubbliche nazionali) potrebbero venire meno.
Infine un quesito-monito che va ben oltre il Pireo. L’elettorato greco non ha promosso gli antieuropeisti e i partiti “no euro”, eppure si è nuovamente orientato sulle forze politiche estreme, di destra e sinistra. E il centro che fine ha fatto? Nea Dimokratia, Pasok, To Potami messi insieme hanno registrato risultati tutto sommato modesti, mentre Syriza, i neofascisti di Alba Dorata e altre formazioni nazionaliste e populiste hanno ottenuto una marea di voti. Si sa che la politica moderna – con l’appoggio dei media e della rete – punta a esasperare le posizioni, a “personalizzare” le battaglie elettorali e quindi a polarizzare le scelte dei cittadini. Lo si è visto in questi anni in tanti altri Paesi europei. Cosa accadrà prossimamente in Italia, in Spagna, in Danimarca, in Germania, nella Repubblica ceca o in qualunque altro angolo del Vecchio continente?