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A “cena” con il Papa… una coppia gay, una coppia di conviventi e un single separato

Di Emanuela Vinai

Mettiamo una sera a cena due coppie e un single. Facciamo anche che, delle due coppie, una è formata da due persone dello stesso sesso e l’altra da due persone di sesso diverso non sposati che convivono da anni. Per non far mancare nulla al copione della pièce, aggiungiamo che il quinto elemento single sia reduce da un matrimonio fallito. Ora posizioniamo i personaggi intorno a un tavolo conviviale, aggiungiamo una spruzzata di convinzioni sociopolitiche diverse e poi mescoliamo il tutto. A questo punto il Regista (che guarda da molto in Alto) fa sì che la conversazione arrivi a parlare di Papa Francesco e qui la sceneggiatura si fa reale. La partenza è forte: “Qui siamo tutti irregolari”. Come se si parlasse di clandestini senza documenti, ma nel dipanarsi del discorso la parola che più ricorre è “accoglienza”.
E’ declinata nelle varie combinazioni del sentirsi accolti, di nuovo parte di una famiglia che magari si contesta ma che è la tua e alla fine è quella in cui ti riconosci e soffri quando te ne discosti. Pochi esempi tra tanti: “Mi ero allontanata dalla Chiesa, ma adesso ho ricominciato a frequentare”, “Ora sento che c’è chi mi ascolta”, “Non ho più paura di avvicinarmi a un sacerdote”, “Anche i miei genitori sono rasserenati”. Un campionario di sollievo misto a incredulità e speranza, un concitato e sorridente rincorrersi di esperienze e di racconti di chi ha trovato un interlocutore se non diretto almeno pontiere.
Quel “chi sono io per giudicare”, spesso citato a sproposito perché riportato solo parzialmente da troppi media, conserva il pregio di tutta la sua forza misericordiosa quando lo si completa a chi ne ignora la continuazione, anche con la ricerca di Dio e la buona volontà. La ricerca di Dio è sete inestinguibile per chiunque, e già la sola rassicurazione di non essere considerati inadatti a questa ricerca è molto più di una pacca sulla spalla. Per la prima volta chi si è sentito ai margini ora non pensa di essere commiserato, ma finalmente compreso. Non è che prima di Francesco (o senza di lui) tutto questo non ci fosse: il nostro Paese è ricco di parroci e parrocchie che fanno dell’accoglienza, a tutti i livelli, il loro tratto distintivo. Il problema è la percezione pregiudiziale negli occhi di molti, che si riduce nel ritornello del rifiuto: “tanto mi diranno di no”. Il tratto distintivo di questo Pontificato che viene percepito dalla gente comune è quello di un Pastore che guarda con misericordia a tutti, nessuno escluso. Che poi magari sia anche capacissimo di dare una tirata d’orecchi va bene: se ci si sente amati, si accetta meglio una sgridata, perché si sa che la si riceve per premura, non per cattiveria. Quello che si coglie oggi con maggiore chiarezza è la distinzione millenaria tra peccato e peccatore.
Tra gli estremi opposti di chi parla di “maquillage” bollando come “fuffa” le parole del Pontefice e chi al contrario le trova troppo aperturiste, cammina tanta gente che timidamente riguadagna fiducia, apre occhi e cuore, accoglie semi buoni e li fa germogliare. Chi si mette in ascolto e in ricerca coglie il difficile equilibrio tra rigore e accoglienza, tra Dottrina e Opere, ma anche lo sforzo inesausto e costante perché nessuno sia lasciato indietro, sia lasciato fuori, sia lasciato solo. Una scelta precisa e dichiarata, quella di stare dalla parte dei poveri – di ogni tipo, ché la povertà è un concetto ampio – e di scendere a incontrarli nelle periferie della vita, che fa uscire la Chiesa dai luoghi comuni in cui è stata troppo spesso rinchiusa. In fondo, quando il Papa dice che la Chiesa è madre, l’immagine che si forma in chi vi presta attenzione è quella della propria di mamma, una combinazione di ossimori che la rende incomparabilmente preziosa: severa ma tenera, esigente ma amorevole, “un albero grande” che non bandisce nessuno dalla fraternità. Ciascuno al suo passo, si trova posto.

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