È il bello della globalizzazione: puoi vendere le tue auto e i tuoi vestiti in tutto il mondo, ma all’intero mondo devi rendere conto. Non solo a livello di gusti e di stile, ma pure di rispetto delle normative locali. E quelle americane sono da sempre molto vigilate da enti di controllo che sanno essere occhiuti e punitivi.
È il fresco caso della tedesca Volkswagen, un konzern automobilistico che raggruppa marchi come appunto la Vw, l’Audi, la Skoda, la Seat, la Porsche, ecc… Insomma, il gruppo automobilistico numero uno al mondo, forte in Europa come in Cina o negli Usa.
Proprio qui il gruppo tedesco è finito contro un muro: le autorità americane lo accusano di aver manipolato i dati sulle emissioni inquinanti prodotte da circa mezzo milione di vetture vendute dal 2009 ad oggi.
Una manipolazione molto “napoletana”, a dispetto del presunto rigore teutonico: un software che permette di abbassare le emissioni quando le auto sono sottoposte a controllo; poi, libere di inquinare di più. Siccome in varie parti del mondo le emissioni – in questo caso di motori diesel – sono sottoposte a certi limiti, è chiaro che il trucchetto è stato piccolo, ma le conseguenze enormi.
Impossibile credere che i vertici non ne fossero a conoscenza; la reputazione del gruppo è andata a farsi benedire a livello mondiale; la multa americana sarà spaventosa (si parla di un miliardo di dollari); il titolo azionario è crollato; adesso altri enti di controllo faranno con più attenzione il loro dovere, con Volkswagen e con altri… Insomma, una slavina che chissà quanti altri danni farà ancora.
D’altronde, se la tua fortuna è planetaria, la tua disgrazia sarà altrettanto grande. E l’agire scorrettamente, oltre a dover passare il vaglio di troppi occhi, rischia di creare conseguenze negative sproporzionate rispetto a quanto fatto. Volkswagen ha truccato un po’ le emissioni dei motori diesel, non ha costruito auto di polistirolo spacciandole per acciaio, però la scorrettezza avrà effetti negativi pesantissimi e per lungo tempo. È il capitalismo moderno, bellezza. Lehman Brothers chiude 158 anni di storia e di profitti giganteschi in pochi giorni, quando viene a galla la qualità delle sue attività finanziarie. In Giappone e in Corea ogni tanto emergono scandali finanziari che coinvolgono gruppi di primaria importanza mondiale: i vertici si dimettono in un amen, con tanto di scuse in diretta tivù.
Nel nostro piccolo, anche l’Italia ha recentemente sperimentato il fuoco dei controlli incrociati. Due grandi banche del Nordest (Veneto Banca e la Popolare di Vicenza) hanno operato in modo dubbio per diverso tempo, ma l’arrivo degli ispettori della Bce ha scoperchiato il vaso di Pandora: vertici aziendali spazzati via, crediti ormai vaporizzati finalmente valutati per quel che sono, mega-ricapitalizzazioni chieste agli azionisti, valore delle azioni riportato saggiamente a livelli credibili, insomma un terremoto. Certi giochetti non si possono più fare neppure nelle piccole banchette di provincia, figuriamoci a livelli più alti. Anche se rimane la perplessità sulla capacità di controllo, in questo caso, della Banca d’Italia: una vigilanza non strettissima. In linea con una tradizione ancora da rodare, qui in Italia, sugli enti di controllo: c’è spesso più azione della magistratura, che delle varie authority preposte.
Ma il mondo ci guarda e si guarda. È sempre più difficile far funzionare fabbriche con condizioni lavorative disumane, se non in certi Paesi del Terzo mondo che poi lavorano per committenti del Primo. E se poi la fabbrica crolla in testa agli operai malpagati e sfruttati, sono le nobili aziende occidentali che devono spiegare ai consumatori che quella felpa e quei jeans sono intrisi di sangue e di sfruttamento minorile.
C’è un’opinione pubblica sempre più sensibile a certi temi (anche troppo, pensando ai tantissimi comitati cittadini no-qualcosa). L’inquinamento ambientale è uno di questi: Volkswagen c’è inciampata pesantemente, si spera ora che a pagare il fio siano i manager truffaldini e non un colosso industriale che fa ottimi prodotti e che dà un’occupazione a più di mezzo milione di persone in giro per questo mondo sempre più interconnesso.