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Bruxelles, porte aperte della parrocchia ai profughi in attesa

Maria Chiaria Biagioni

Hanno camminato tre mesi e pagato somme altissime, anche 5mila euro, per raggiungere l’Europa. Provengono per la maggior parte da Siria, Iraq e Afghanistan: paesi distrutti da una guerra che sembra non finire mai. Arrivano stanchi, stremati ma non piangono, non si lamentano. Hanno solo tanta voglia di ricominciare a guardare al futuro. Si intrecciano una miriade di storie nella parrocchia di Saint Roch di Bruxelles. Sorge a pochi metri dal Parc Miximilien dove da mesi un migliaio di migranti sta facendo la fila all’Office des étrangers per ottenere lo statuto legale dell’asilo che consente la permanenza nel Paese. Siamo nel cuore della città sede dell’Unione Europea. La città dove i capi di governo e di Stato si incontrano periodicamente per decidere le quote degli immigrati da accogliere nei propri Paesi. Il Parc Maximilien è tra tutti i campi sparsi in Europa, il luogo-simbolo di questo flusso eccezionale di persone, uomini e donne e bambini che dal sud del mondo stanno bussando alle porte delle nostre città.

Le condizioni sono precarie. “Negli ultimi tre giorni – racconta padre Hugo Van Geel, parroco della Chiesa Saint Roch – ha piovuto incessantemente a Bruxelles e la pioggia qui batte forte sotto i colpi di un vento impetuoso”. Da tempo, la parrocchia ha aperto le sue porte per dare un posto caldo dove dormire la notte. Arrivano spesso tutti bagnati. Per questo la prima cosa che viene offerta sono dei vestiti asciutti e una bevanda calda. La disponibilità è limitata a 25 posti: ogni sera gli operatori della Caritas vanno al Parc Maximilien e selezionano tra i migranti quelli che hanno un assoluto bisogno di aiuto. Viene consegnato loro un “papier” e con questo si presentano in parrocchia. Sono dunque le persone più fragili e vulnerabili a transitare per i locali della parrocchia. Il parroco racconta di un gruppo di ragazzini dai 14 ai 17 anni provenienti dalla Siria. Si sono conosciuti in viaggio e hanno deciso di unirsi perché insieme era più facile superare nei tre mesi di cammino a piedi difficoltà e ostacoli. Moltissime sono le donne che arrivano qui: spesso sono incinta e con bambini piccoli. La vita scorre nel lungo peregrinare e qualche volta riserva anche motivi per cui festeggiare e gioire: “come quella notte – ricorda padre Hugo – che abbiamo dovuto chiamare un’ambulanza perché una donna aveva cominciato il travaglio”. Ma le condizioni in cui queste donne e i loro figli arrivano, sono molto precarie. Un bimbo è arrivato con una manina bruciata. Un altro respirava talmente male che hanno dovuto accompagnarlo in ospedale. “Eppure – aggiunge subito padre Hugo – questi bambini sono sempre gentili, gioiosi, ti prendono per mano per dirti che vogliono giocare. Non li abbiamo mai visti piangere”. E ne avrebbero tutte le ragioni: i corridoi della parrocchia hanno sentito risuonare in questi mesi storie di guerra e di dolore. Nessuno si lamenta. “Esprimono solo gratitudine e sono riconoscenti per quello che si dà”. L’accoglienza in parrocchia implica una organizzazione seria e complessa. I migranti devono essere accolti, accompagnati e non possono essere lasciati soli. Nella Chiesa di Saint Roch è una equipe di 10 persone a garantire il servizio ed una persona a turno rimane la notte. C’è poi un gruppo a parte che pensa alla distribuzione dei vestiti. Ma la solidarietà è tanta e inesauribile: ogni giorno arrivano biscotti, pane, formaggio, coperte e “tutto quello che riceviamo, doniamo”.

Papa Francesco chiama. Il Belgio risponde. Nei mesi estivi la Conferenza episcopale belga aveva rilanciato un appello della Caritas ai proprietari di alloggi inutilizzati perché li mettessero a disposizione per l’accoglienza: l’appello ha raccolto oltre 300 offerte dando quindi vita ad un progetto-pilota in Europa. I vescovi guardano con preoccupazione ai prossimi mesi. Monsignor Jean Kockerols, vescovo ausiliare di Bruxelles, è appena stato al Parc Maximilien. “Se al momento attuale – dice – le autorità civili e politiche, le organizzazioni caritative e numerosi volontari sono impegnati sul campo per rispondere all’emergenza e ai bisogni più immediati, è chiaro che tra qualche mese, quando una parte significativa dei rifugiati avrà ottenuto lo statuto legale dell’asilo, l’aiuto di tutti sarà ancor più necessario. Si pensi, per esempio, all’importanza d’inserire i bambini nel mondo della scuola, a trovare un lavoro ai genitori o un alloggio dove poter stare”. Le parrocchie anche in questa nuova fase saranno impegnate in prima linea. Tutto ciò – riflette il vescovo – richiederà da parte delle comunità un “atteggiamento di grande apertura verso i profughi. Bisogna imparare ad ascoltare queste persone. Hanno storie di grande sofferenza. La maggior parte viene da Siria, Iraq e Afghanistan. Bisognerà quindi aprirsi ad altre culture e, al tempo stesso, dare a loro il meglio della nostra”. Il vescovo Kockerols ricorda che l’impegno della Chiesa belga per i rifugiati è in linea con la visita che tre vescovi del Belgio hanno fatto, dal 17 al 21 settembre, nel Nord dell’Iraq per una missione di solidarietà. “Bisogna poter dire a questa gente – dice Kockerols – che per loro è meglio rimanere nella loro terra. Ma anche essere pronti a dire che se sono obbligati ad andarsene, noi siamo qui ad accoglierli”.

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