Sollecitati dalla sfida separatista, i catalani si sono recati in massa alle urne per un voto, quello di domenica 27 settembre, che da politico (elezione delle Generalitat de Catalunya, sistema istituzionale comprendente parlamento e governo della regione autonoma, con sede a Barcellona) era stato trasformato in una sorta di referendum sulla permanenza o meno della Catalogna entro lo Stato spagnolo. I risultati stanno facendo il giro d’Europa e sono sulle prime pagine dei media continentali: le sfide secessioniste sono infatti una componente diffusa e costitutiva della “diversità europea”, che attraversa le realtà sociali e politiche dalla Spagna all’Ucraina, dall’Italia alla Scozia, tracciando una linea rossa fra i quattro punti cardinali.
Le forze secessioniste, capitanate dall’attuale presidente delle Generalitat, Artur Mas, conquistano la maggioranza nel parlamento locale con 72 seggi su 135: 62 assegnati al partito di Mas, Junts pel sì (Uniti per il sì), 10 agli alleati di Cup, Candidatura d’unitat popular. Gli altri seggi vengono ripartiti a Ciutadans (Partito dei cittadini, 25 seggi), Partito socialista (16), Catalunya sì que es pot (Catalogna sì, si può, favorevole a una maggiore autonomia regionale, 11), Partito popolare (alla guida del governo nazionale con Mariano Rajoy, 11). Quello che è venuto meno ai secessionisti è la maggioranza dei voti popolari: Junts pel sì e Cup tengono in pugno le istituzioni di Barcellona ma devono riconoscere che i cittadini della Catalogna sono divisi in due: poco meno della metà reclama l’indipendenza, poco più della metà si accontenta della già ampia autonomia amministrativa regionale.
Si apre ora una lunga e incandescente fase politica, durante la quale Mas e compagni proveranno a portare – entro 18 mesi, come promesso agli elettori – la regione fuori dallo Stato spagnolo e dalla sovranità della corona.
La questione catalana non può però risolversi con una contrapposizione di partiti e di slogan di piazza e nemmeno può essere sottovalutata sul piano identitario e politico: la regione presenta una sua storia, benché in gran parte inserita in quella spagnola, una sua lingua, una bandiera, la presenza di città – oltre al capoluogo si possono citare almeno Girona, Lleida e Tarragona – capaci di esprimere un proprio orgoglio territoriale. Nonché – non si può trascurare – la Catalogna vanta una sua economia, un poco più florida di quella nazionale, e un club calcistico (il Futbol Club Barcelona) divenuto in questi anni un emblema catalano conosciuto in tutto il mondo.
Se ci si domandasse come mai in questi anni si è andato diffondendo uno spirito secessionista, espressosi anche in affollatissime manifestazioni di piazza, le ragioni plausibili non mancherebbero. La prima di tutte, però, appare quella più concreta e stringente: in epoca di crisi economica, mentre la Spagna affondava nella recessione e nella disoccupazione più nera, la Catalogna reggeva meglio all’urto, mentre cresceva il malcontento per l’eccessiva pressione fiscale.
Cosa ci si può aspettare, dunque, dagli sviluppi del voto del 27 settembre? È possibile immaginare che si creerà una serie di confronti serrati entro e oltre i “confini” della Catalogna. Il primo tra gli stessi partiti separatisti, dato che Mas e i suoi Junts pel sì occupano un’area politica centrista, mentre Cup è una formazione di sinistra estrema. Il secondo confronto dovrebbe collocarsi entro il parlamento regionale, dove i 72 alfieri dello strappo con Madrid dovranno vedersela con i 63 che si oppongono a tale opzione. Ulteriore dibattito potrebbe decollare nel mondo produttivo, finanziario e sindacale catalano: perché il distacco dalla Spagna comprenderebbe la rinuncia immediata all’euro e al mercato unico europeo.
Ovviamente un ulteriore confronto, forse il più complesso e duro, si instaurerà – anzi si acuirà, perché già esiste – tra il governo centrale e quello regionale, tra i 7 milioni di catalani e gli altri 40 milioni di spagnoli.
Non da ultimo, si aprirebbe un braccio di ferro tra la stessa Catalogna e l’Unione europea: già fortemente impegnata a mantenere nell’alveo della “casa comune” l’impoverita Grecia e lo scalpitante Regno Unito, Bruxelles non può permettersi una nuova lacerazione. Del resto i Trattati sono chiari: se una regione rompe l’unità nazionale di un Paese membro esce anche dall’Ue, liberandosi dei doveri comunitari ma anche rinunciando immediatamente ai benefici che ne derivano, a partire dai copiosi fondi strutturali, dai vantaggi del mercato unico (import-export), dalla “comodità” – per gli scambi interni – della moneta unica.
Su queste basi la Catalogna è ora attesa ai prossimi passi. Si tratterà di un democratico e pacato percorso politico oppure qualcuno proverà a esasperare gli animi e a forzare la mano con qualche mossa violenta? È lecito anche porsi questa domanda, visto che in Spagna (Paesi baschi) e in Europa (Irlanda) i secessionismi hanno fatto troppe vittime in passato.
Le forze secessioniste, capitanate dall’attuale presidente delle Generalitat, Artur Mas, conquistano la maggioranza nel parlamento locale con 72 seggi su 135: 62 assegnati al partito di Mas, Junts pel sì (Uniti per il sì), 10 agli alleati di Cup, Candidatura d’unitat popular. Gli altri seggi vengono ripartiti a Ciutadans (Partito dei cittadini, 25 seggi), Partito socialista (16), Catalunya sì que es pot (Catalogna sì, si può, favorevole a una maggiore autonomia regionale, 11), Partito popolare (alla guida del governo nazionale con Mariano Rajoy, 11). Quello che è venuto meno ai secessionisti è la maggioranza dei voti popolari: Junts pel sì e Cup tengono in pugno le istituzioni di Barcellona ma devono riconoscere che i cittadini della Catalogna sono divisi in due: poco meno della metà reclama l’indipendenza, poco più della metà si accontenta della già ampia autonomia amministrativa regionale.
Si apre ora una lunga e incandescente fase politica, durante la quale Mas e compagni proveranno a portare – entro 18 mesi, come promesso agli elettori – la regione fuori dallo Stato spagnolo e dalla sovranità della corona.
La questione catalana non può però risolversi con una contrapposizione di partiti e di slogan di piazza e nemmeno può essere sottovalutata sul piano identitario e politico: la regione presenta una sua storia, benché in gran parte inserita in quella spagnola, una sua lingua, una bandiera, la presenza di città – oltre al capoluogo si possono citare almeno Girona, Lleida e Tarragona – capaci di esprimere un proprio orgoglio territoriale. Nonché – non si può trascurare – la Catalogna vanta una sua economia, un poco più florida di quella nazionale, e un club calcistico (il Futbol Club Barcelona) divenuto in questi anni un emblema catalano conosciuto in tutto il mondo.
Se ci si domandasse come mai in questi anni si è andato diffondendo uno spirito secessionista, espressosi anche in affollatissime manifestazioni di piazza, le ragioni plausibili non mancherebbero. La prima di tutte, però, appare quella più concreta e stringente: in epoca di crisi economica, mentre la Spagna affondava nella recessione e nella disoccupazione più nera, la Catalogna reggeva meglio all’urto, mentre cresceva il malcontento per l’eccessiva pressione fiscale.
Cosa ci si può aspettare, dunque, dagli sviluppi del voto del 27 settembre? È possibile immaginare che si creerà una serie di confronti serrati entro e oltre i “confini” della Catalogna. Il primo tra gli stessi partiti separatisti, dato che Mas e i suoi Junts pel sì occupano un’area politica centrista, mentre Cup è una formazione di sinistra estrema. Il secondo confronto dovrebbe collocarsi entro il parlamento regionale, dove i 72 alfieri dello strappo con Madrid dovranno vedersela con i 63 che si oppongono a tale opzione. Ulteriore dibattito potrebbe decollare nel mondo produttivo, finanziario e sindacale catalano: perché il distacco dalla Spagna comprenderebbe la rinuncia immediata all’euro e al mercato unico europeo.
Ovviamente un ulteriore confronto, forse il più complesso e duro, si instaurerà – anzi si acuirà, perché già esiste – tra il governo centrale e quello regionale, tra i 7 milioni di catalani e gli altri 40 milioni di spagnoli.
Non da ultimo, si aprirebbe un braccio di ferro tra la stessa Catalogna e l’Unione europea: già fortemente impegnata a mantenere nell’alveo della “casa comune” l’impoverita Grecia e lo scalpitante Regno Unito, Bruxelles non può permettersi una nuova lacerazione. Del resto i Trattati sono chiari: se una regione rompe l’unità nazionale di un Paese membro esce anche dall’Ue, liberandosi dei doveri comunitari ma anche rinunciando immediatamente ai benefici che ne derivano, a partire dai copiosi fondi strutturali, dai vantaggi del mercato unico (import-export), dalla “comodità” – per gli scambi interni – della moneta unica.
Su queste basi la Catalogna è ora attesa ai prossimi passi. Si tratterà di un democratico e pacato percorso politico oppure qualcuno proverà a esasperare gli animi e a forzare la mano con qualche mossa violenta? È lecito anche porsi questa domanda, visto che in Spagna (Paesi baschi) e in Europa (Irlanda) i secessionismi hanno fatto troppe vittime in passato.