Gli hotspot “stanno cominciando a funzionare” e “dal primo ottobre sono previsti i primi trasferimenti di richiedenti asilo da Italia e Grecia”: Natasha Bertaud, portavoce della Commissione Ue, è apparsa rassicurante alcuni giorni or sono spiegando, a Bruxelles, che la macchina europea della ricollocazione dei profughi si sta mettendo in moto. Un problema complesso, inutile dirlo, per via del massiccio e crescente flusso migratorio in arrivo da Africa e Medio Oriente, per i muri e i fili spinati innalzati da vari Paesi, per i tentativi di dar vita a un primo nucleo di politica migratoria comune sotto la regia dell’Unione europea che sappia vincere le resistenze (e gli egoismi) nazionali. Fra gli strumenti identificati in questa direzione figurano gli hotspot, “punti di crisi” nella versione italiana dei documenti prodotti in sede comunitaria.
Operazioni di “smistamento”. I “punti di crisi” hanno una data di nascita: appaiono infatti nella “strategia” proposta lo scorso 13 maggio dalla Commissione europea ai 28 Stati dell’Unione per far fronte all’emergenza migratoria. Gli hotspot vengono pensati come “centri di identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali e fotosegnalazione dei migranti” negli stessi luoghi d’arrivo: si parla subito di Italia, Grecia, ma anche Ungheria. Per realizzare questi uffici di primo controllo dell’identità sono chiamati a collaborare – nelle intenzioni della Commissione – l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (Easo), l’Ufficio di polizia europeo (Europol), l’agenzia per la cooperazione giudiziaria (Eurojust) e Frontex, agenzia per la gestione delle frontiere esterne. Personale nazionale e comunitario dovranno lavorare gomito a gomito per “smistare” i migranti: “Chi presenterà domanda di asilo – si legge nella proposta della Commissione – sarà immediatamente immesso in una procedura di asilo. Per chi invece non necessita di protezione, è previsto che Frontex aiuti gli Stati membri a coordinare il rimpatrio dei migranti irregolari”. A sostegno della costituzione degli hotspot la Commissione si impegna per un primo stanziamento di 60 milioni di euro.
Il peso su Sicilia e Puglia. Concretamente prende così forma lo “scambio” tra solidarietà e responsabilità ideato nei summit Ue: ovvero i Paesi di prima accoglienza definiscono subito quali siano i soggetti che hanno diritto a una procedura per il riconoscimento dell’asilo e si impegnano a rispedire al mittente i cosiddetti migranti economici (come se carestie o fame facciano meno male di una persecuzione politica); in cambio l’Unione avvia il ricollocamento di 160mila persone fra quei Paesi membri che si mostrano disponibili. I vertici comunitari del 14 e 22 settembre mettono nero su bianco, nonostante le polemiche e le defezioni di alcuni governi, l’intera operazione. Ma i dubbi sugli hotspot si moltiplicano. In Grecia ne dovrebbe essere realizzato uno, nel porto del Pireo; l’Ungheria non ci sta, perché ha la sensazione – e il premier Viktor Orban non ne fa mistero – che i Paesi Ue non direttamente esposti agli arrivi vorrebbero scaricare agli Stati posti sulle frontiere esterne il maggior peso. Nel frattempo l’Italia si attrezza: la scorsa settimana ha cominciato a funzionare “in via sperimentale” l’hotspot di Lampedusa; entro novembre ne dovrebbero essere approntati altri a Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani. Anche Taranto (e forse Augusta) dovrebbe ospitare un “punto di crisi”. Tutto il peso su Sicilia e Puglia, regioni del sud.
“Meccanismo pericoloso”. I dubbi sulla questione sono confermati, in Italia, da Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas: “La previsione contenuta nell’agenda europea sulla creazione di hotspot nei Paesi di primo approdo rischia di essere un boomerang. Migliaia di migranti, economici e rifugiati, dovranno essere ‘selezionati’ per valutare chi potrà rimanere in Europa e chi invece dovrà essere rimpatriato. Questo, oltre a costituire un onere eccessivo per i Paesi interessati, in primis l’Italia, appare un meccanismo pericoloso in quanto metterebbe costantemente a rischio i diritti umani”. Inoltre “la necessità di rimpatriare un numero crescente di migranti richiederà un allargamento del sistema di trattenimento e quindi l’apertura di nuovi Cie”, dei quali invece Caritas, Migrantes, Ong e volontariato indicano la necessità di una chiusura definita, perché divenuti nei fatti dei centri detentivi.
Un nuovo muro… Sulla stessa linea don Gian Carlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana: “La creazione degli hotspot rischia da una parte di creare una rete ulteriore di strutture a grandi dimensioni, poco attente alla persona e, al tempo stesso, di limitare fortemente il diritto di migrare, soprattutto per chi ha un progetto migratorio di ricongiungimento familiare. La necessità, poi, di accelerare i tempi per l’identificazione potrebbe portare con sé il rischio di una semplificazione, a danno della protezione internazionale e della protezione sociale di persone e famiglie”. Secondo il direttore di Migrantes è “preoccupante questa svolta europea che, anziché favorire l’identificazione e l’accompagnamento in strutture diffuse sul territorio nazionale, con l’aumento di Commissioni per l’esame della domanda di protezione internazionale, ritorna a creare strumenti che fermano, ammassano, non tutelano” le persone migranti.