“Esserci”, “esserci-con”, “esserci-per”: ecco la “progressione magnifica” che permette di partire da un Io (l’esserci), per passare ad un Tu (l’“esserci-con”) e infine giungere ad un Noi (l’“esserci-per”), dimensione ultima e sola che apre alla generatività, alla creatività e all’oblatività. In questa progressione però irrompono le formidabili componenti della società tecnoliquida: il narcisismo e la sua forma virale su base digitale, la tecnomediazione della relazione, l’amicizia “light”, a portata di “click”, le relazioni virtuali nelle loro varie declinazioni ambigue, l’ipersessualizzazione dell’infanzia e il mostruoso incremento della cyberpornografia, la “gamizzazione” immersiva (ogni attesa è invasa da giochi digitali e intere generazioni crescono con i video games), la ricerca di emozioni forti, la velocità estrema.
Il punto di partenza della “progressione magnifica” dunque sarebbe l’esserci, cioè l’identità. Ma cosa vuol dire “esserci” nella società tecnoliquida? Le osservazioni condotte all’alba del terzo millennio, in piena postmodernità tecnoliquida, ci inducono a ritenere che esserci vuol dire oggi rinunciare a un’identità stabile, per entrare nell’unica dimensione possibile: quella della liquidità, ovvero quella dell’identità mutevole, difforme, dissociata e continuamente ambigua di chi è e al tempo stesso non è.
In fondo la tecnologia digitale consente all’uomo e alla donna del terzo millennio di essere senza vincoli, di tecnomediare la relazione senza essere in relazione, di connettersi e di costruire legami liquidi, mutevoli, cangianti e in ogni istante fragili, privi di sostanza e di verifica, pronti ad essere interrotti. La crisi dell’identità maschile e femminile, per esempio, ne è l’espressione più evidente. La crisi dell’esserci ha una prima conseguenza. Se all’uomo d’oggi è precluso il raggiungimento di una identità stabile, che si articola e si declina nelle varie dimensioni, come in quella psicoaffettiva e psicosessuale, la conseguenza prima è che l’“esserci-con” (per esempio la coppia) assume nuove e multiformi manifestazioni. L’“esserci-con” non è più il reciproco relazionarsi fra identità complementari (maschio-femmina per esempio), sul quale costruire dimensioni progettuali nelle quali si dispiegano legittime attese esistenziali, ma diviene l’occasionale incontro tra bisogni individuali che vanno reciprocamente a soddisfarsi, per un tempo minimo, al di là di impegni reciproci e di progetti che superino l’istante. In altri termini oggi l’incontro tra due persone sempre più spesso si basa sulla soddisfazione narcisistica, individuale e direi solipsistica di un bisogno che incontra un altro bisogno, altrettanto narcisistico, individuale e solipsistico. Questo incontro si dispiega per un tempo limitato alla soddisfazione dei bisogni individuali e l’emergere di nuovi e contrastanti bisogni determina inevitabilmente la rottura del legame e la ricerca di nuovi incontri che sempre più avvengono in Rete. La fragilità dell’“essere-con” dei nostri tempi si evidenzia attraverso l’estrema debolezza dei legami affettivi, che manifestano un’ampia instabilità e una straordinaria conflittualità. L’uomo del terzo millennio sembra rinunciare alla possibilità di un futuro e sembra concentrarsi sull’unica opzione possibile, quella del presente occasionale, del momento, dell’istante. Ecco dunque la crisi del legame “per sempre”, che accompagna l’ineluttabile fragilità della relazione.
Fatalmente, il trionfo dell’ambiguità identitaria, la rinuncia al ruolo e alla responsabilità che ne consegue, il ridursi dell’“esserci-con” all’istante e al bisogno momentaneo e individuale, mina nelle sue fondamenta l’“esserci-per”, cioè la dimensione generativa e oblativa dell’uomo e della donna. Per esempio, se decliniamo tutto ciò nell’ambito psicoaffettivo e psicosessuale, la rinuncia all’esserci (identità sessuale e relativi ruoli) non può non trasmettersi in una inevitabile mutazione critica della dimensione coniugale (“esserci-con”), che a sua volta fa precipitare in una crisi senza speranze la dimensione genitoriale (“esserci-per”). Infatti la transizione al ruolo genitoriale sembra divenire oggi una sorta di utopia: la rinuncia alla genitorialità o il suo semplice rimandarla nel tempo sono un fenomeno sociale tipico dei nostri tempi. Eppure qualcosa non funziona. Lo avvertiamo dall’incremento del disagio psichico, dal sempre più pressante senso di smarrimento dell’uomo tecnoliquido, dalla ricerca affannosa di vie brevi e immediate per la felicità, dall’aumento del consumo di alcol e di stupefacenti negli stessi opulenti ragazzi della società di Facebook, dall’affermarsi di una cupa cultura della morte, dall’inquietante incremento dei suicidi, dal malessere diffuso. Qualcosa dunque non funziona sia a livello individuale che sociorelazionale: la liquidità dell’identità, con tutte le sue conseguenze, non aumenta il senso di felicità dell’uomo contemporaneo.
Alcuni studi sul benessere fanno osservare che la felicità non è correlata con l’incremento delle possibilità di scelta. Questi dati fanno saltare una convinzione che sembrava imbattibile. La felicità dunque non è correlata con l’incremento delle possibili scelte dell’uomo (una visione ovviamente molto legata al capitalismo), ma gli stessi studi correlano la felicità con il possedere invece un “criterio” per scegliere. Avere un criterio per scegliere rimanda ad altro: avere progetti, idee, identità. Ed ecco che il cerchio si chiude: il tema della liquidità è sostanzialmente il tema della rinuncia ad avere criteri (cioè dimensioni di senso ben definite). Ma questa rinuncia ha un prezzo: l’infelicità. Ecco perché la “magnifica progressione” dall’“esserci-con” all’“esserci-per”, e dunque il tendere al “per sempre” mantiene anche oggi, e direi soprattutto oggi, un alto valore di significato ed è persino affascinante, proprio per il suo portato anti-liquidità. Costruire dimensioni identitarie e di senso stabili e non ambigue, instaurare relazioni solide e che si dispiegano lungo progetti esistenziali che consentono l’apertura alla generatività e all’oblatività, sono ancora, in ultima analisi, l’unico orizzonte di speranza che si apre per l’uomo del terzo millennio, immerso nel cupo e doloroso paradigma della tecnoliquidità.