“Vedere tanti giovani intrisi di odio, agire violentemente fino ad uccidere, morire o essere uccisi è triste. Condanniamo con fermezza questi atti. La sola risposta che ci può essere è quella del dialogo e della conoscenza e queste devono venire dai banchi di scuola. Sono valori che devono essere insegnati sin da piccoli. Non possiamo lasciare che i giovani si prendano a coltellate. Dobbiamo insegnare loro principi di vita e non di morte. I programmi scolastici non devono favorire l’odio e l’oppressione”. Le scene di morte di questi giorni a Gerusalemme e in Cisgiordania, che hanno visto protagonisti giovani palestinesi aggredire e uccidere famiglie di ebrei e essere a loro volta colpiti dalle forze israeliane riporta in primo piano il ruolo delle scuole. “È facile – spiega padreAbdel Masih Fahim, segretario generale per le scuole cattoliche della Custodia di Terra Santa, una vita intera spesa nell’insegnamento – vedere come sin da piccoli, tra i banchi di scuola, si diventa attori del conflitto in corso. Gli studenti vivono sulla propria pelle la retorica che fuoriesce dai libri di storia nei quali la narrativa dell’altro, israeliano o palestinese che sia, vive della contrapposizione, del tema del nemico, dell’incarnazione dell’oppressione, dell’insicurezza e del pericolo dietro ogni angolo. I bambini crescono con identità incompatibili”. A generarle sono le interpretazioni opposte di date, di storie, di eventi, di terre contese dai confini invisibili o forse meglio dire inesistenti, tutto messo per iscritto, nero su bianco, nei libri di scuola. Così facendo si distrugge il futuro e si segna ancora di più la distanza tra visioni diverse.
L’altro come nemico: questa è l’immagine che israeliani e palestinesi restituiscono gli uni degli altri secondo i testi scolastici. Una visione confermata da diversi studi condotti negli ultimi anni da diversi esperti. Uno di questi, promosso nel 2013 dal Consiglio delle Istituzioni Religiose di Terra Santa (che rappresenta cristiani, musulmani e ebrei), ha visto gli autori, tutti di diversa provenienza, convenire che i libri israeliani e quelli palestinesi (ne sono stati presi in esame 640, 492 israeliani e 148 palestinesi), mancano di “informazioni sulla religione, la cultura, l’economia e altre attività quotidiane”, quando queste non sono addirittura ignorate. Un modo “per negare la legittima presenza dell’altro”. Conclusioni che hanno ricevuto critiche sia da parte israeliana sia palestinese. “I programmi scolastici non favoriscono la comprensione e la pace tra i due popoli – conferma padre Fahim – i rispettivi ideali vengono contrapposti e gli studenti crescono nei banchi di scuola con una narrativa violenta e di opposizione. Lo vediamo nello studio della storia, della geografia, dell’arte, dell’educazione civica”. L’esempio portato dal francescano è lo scoglio di Gerusalemme: “la città santa – dice – è considerata da entrambe le parti come propria capitale. Inoltre i confini dei due Paesi non esistono, non ci sono. Si insegna che esiste una sola terra e un solo popolo che la abita. I palestinesi ritengono che tutta la terra appartenga loro e lo stesso credono gli israeliani”. Difficile pensare ad un futuro di pace “se si cresce così. La pace non viene considerata. Dalle due parti non sembrano arrivare messaggi di comprensione e soprattutto di dialogo”. Cambiare i programmi appare questione insormontabile come anche ampliare i corsi di studio, introducendo, come ha fatto da qualche tempo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) lo studio della Dichiarazione universale dei diritti umani.
E tra l’incudine e il martello ci sono le scuole cristiane che nel loro piccolo cercano di veicolare messaggi di tolleranza e di convivenza giusta e pacifica. “Sono 36 anni che lavoro nel mondo della scuola e ho sempre cercato di favorire la nascita di gruppi di israeliani e palestinesi, ebrei, cristiani e musulmani, capaci di confrontarsi e parlare fuori dai luoghi comuni e dagli stereotipi, ma siamo pochi. Purtroppo – riconosce il segretario generale per le scuole cattoliche della Custodia di Terra Santa – non riusciamo ad incidere nelle due società come vorremmo. Nonostante le difficoltà andiamo avanti lo stesso. Nelle nostre scuole, siano esse in Israele che in Palestina, seguiamo i programmi dei rispettivi Ministeri. I libri di testo – ribadisce – rappresentano le diverse posizioni dei due Paesi in lotta da decenni. Anche se siamo una minoranza, nelle nostre scuole cristiane cerchiamo di far passare il messaggio che la convivenza, la giustizia, il rispetto e la conoscenza reciproca sono possibili”. E poco importa se la studio della storia del Cristianesimo sia penalizzato nelle scuole palestinesi e israeliane, dove, aggiunge il religioso, “non possiamo parlare di etica cristiana, spiegare che cosa è il Cristianesimo, cosa è la Chiesa e il significato della nostra presenza qui”. Ma qualcuno ora sembra se ne stia accorgendo, stando al sostegno che le scuole cristiane in Israele (ben 47 per 33mila studenti) hanno ricevuto dall’opinione pubblica israeliana e palestinese in occasione di uno sciopero proclamato per denunciare il taglio massiccio dei contributi statali imposto negli ultimi due anni da parte di Israele e revocato dopo un accordo con Ministero dell’educazione.
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