Stanno per arrivare sul mercato azionario (Milano, Hong Kong o New York ormai poco importa: oggi si può investire ovunque da qualsiasi posto) due grandi debutti tricolori: la Ferrari scorporata dalla casa madre Fca; e le Poste Italiane che proprio in questi giorni stanno reclamizzando la loro parziale privatizzazione. Altri si stanno affacciando al mercato dei capitali per cercare risorse per lo sviluppo, tutti consapevoli che il mercato obbligazionario rimarrà infruttifero per lungo tempo e che i guadagni finanziari si potranno ottenere investendo al di fuori di obbligazioni societarie e Btp. Ma Ferrari e Poste sono, per dimensioni e fama, due nomi di tutto riguardo dell’economia italiana.
L’azienda automobilistica fondata dal modenese Enzo come scuderia da corse, quindi diventata il miglior produttore mondiale di spider da strada (sempre seguitando a correre in pista), era finita nell’orbita Fiat nel 1969, quando serviva un grosso partner industriale per stare dietro alle crescenti richieste del mercato. Fiat – ora Fca-Chrysler – ne ha sempre assecondato l’autonomia gestionale, godendo dei ricchi dividendi che le vendite di Testarossa e degli altri bolidi hanno finora assicurato. Adesso il gruppo torinese-americano vuole portare all’incasso la cambiale, per un marchio italiano che è il più conosciuto al mondo e che può essere valorizzato fino a 10 miliardi di euro.
Si dice che Ferrari sarà l’unica casa automobilistica a rimanere nell’orbita della famiglia Agnelli-Elkann, mentre gli altri marchi dovrebbero accasarsi con un grosso partner industriale (Marchionne preme per l’americana Gm). Per fare auto che competano a livello globale servono investimenti spaventosi che gli azionisti italiani non hanno né la possibilità né la voglia di sostenere; mentre Ferrari rimarrà sempre un piccolo (in numeri produttivi) marchio premium dall’altissima redditività. E si parla di proposte d’acquisto quattro volte superiori al plafond messo sul mercato, segno che a tanti in giro per il mondo piacerà mettere azioni Ferrari dentro il portafoglio. Guarda come gira il mondo: la grande Fiat comprò la piccola Ferrari; ora quest’ultima è sugli scudi mentre Fiat è solo un marchio probabilmente destinato a scomparire…
Il discorso di Poste Italiane è notevolmente diverso. Nate per distribuire appunto la posta, nel corso dei decenni (anzi: secoli, le casse di risparmio postale sono datate 1875) sono diventate anche un fondamentale polmone finanziario per lo Stato e per i risparmiatori: i buoni postali hanno procurato miliardi al primo, e buone occasioni di investimento ai secondi. Poi, la svolta. Si guadagna molto di più con la finanza piuttosto che con i postini, e quindi ecco la nascita di BancoPosta e di Poste Vita. Si tratta di due colossi nei rispettivi settori: Poste Vita è la prima compagnia assicurativa italiana quanto a raccolta premi; la banca-non banca (non è soggetta alle stesse regole degli altri istituti di credito, che infatti non l’hanno mai digerita) pesa ormai per il 60% dell’intero gruppo e concorre a produrre lo stesso livello di utili.
In soldoni: banca e assicurazioni fanno soldi; la distribuzione postale produce perdite. Va da sé che i manager che hanno guidato il gruppo in questi anni, hanno privilegiato il profilo finanziario rispetto a quello “classico”.
Ora il governo intende fare cassa, e offre al mercato più di un terzo del pacchetto azionario della “sua” Spa. Insomma una privatizzazione vera, come fu quella di Eni, Enel o Telecom negli anni Novanta. Anche se poi le leve di comando rimarranno pubbliche. Anche in questo caso si parla di una valorizzazione complessiva del gruppo che si avvicina ai 10 miliardi di euro, a seconda di quale sarà il valore dato alle azioni in sede di collocamento (da 6 a 7,5 euro la forchetta in questione). È un investimento azionario, quindi soggetto ai rischi di un mercato borsistico, anche se prevede un bonus al risparmiatore che terrà l’azione per almeno un anno e promette dividendi sicuri per i prossimi due. Buona per il risparmiatore-cassettista, insomma. E per il cittadino italiano?
Ecco, questa è l’unica grossa perplessità che hanno un po’ tutti, singoli cittadini come fondi di investimento. Oltre a vendere polizze vita, abbonamenti telefonici, conti correnti, le future Poste Italiane faranno ancora il loro antico mestiere? E gli ufficetti postali sparsi ovunque e in rapida via di ritirata? E le pensioni pagate “brevi manu”? E le bollette?
Il gruppo è oggi nelle mani di Francesco Caio, un ottimo manager ma non il mago Houdini. A lui è stato chiesto di portare le Poste in una certa direzione, e lo sta facendo bene. Ma quella direzione forse non prevede “pesi” come la distribuzione postale, che è un servizio che costa più di quanto renda. Ma è un servizio sociale importante. È vero che Caio intende metterlo a frutto sviluppando fortemente la distribuzione di merce acquistata via internet: l’e-commerce sarà il futuro, si dice. Ebbene, che ci sia un futuro anche per giornali e raccomandate. O, altrimenti, che si sappia chi e come lo farà al posto delle Poste, se lo fossero di nome e non più di fatto.