Gli uomini e le donne del terzo millennio, al tempo della rivoluzione digitale e della tecnocrazia onnipotente, sono più felici? Il benessere, nell’epoca del dominio tecnologico, è aumentato? Secondo i dati Oms sembrerebbe di no: già ora, ma soprattutto nei prossimi 5 anni, la patologia più invalidante nel mondo è e sarà la depressione. Se poi consideriamo l’impressionante esplosione delle dipendenze comportamentali, cioè di quelle ragnatele comportamentali che avviluppano l’uomo postmoderno in comportamenti ripetitivi, trasformandolo in schiavo del sesso, della tecnologia, del gioco o dell’acquisto, allora ci rendiamo conto che qualcosa non quadra. Non quadra ancora di più se riflettiamo sulla precocissima e veloce erotizzazione dei bambini (la metà dei bimbi a 11 anni ha già incontrato la pornografia) e sulle sue conseguenze sui cortocircuiti dell’intimità fallita, sul precoce impatto con sostanze stupefacenti e alcolici (basta pensare al binge drinking e alla sua diffusione fra gli adolescenti) che non può non alterare lo sviluppo cerebrale verso forme di discontrollo e di disorganizzazione, sull’incremento dei bambini che hanno necessità di cure psichiatriche (quasi uno su dieci nei primi otto anni di vita) e, in definitiva, sul fatto che un adulto su quattro nel corso di vita ha bisogno di cure psichiatriche. Insomma, sono dati impressionanti, che sembrano alludere ad un generale incremento del malessere e della fragilità.
“Mio figlio era depresso e ammalato. Depresso per aver perso il suo lavoro dopo 30 anni di attività. Oggi molte persone perdono il proprio posto. C’è chi reagisce in un modo e chi reagisce in un altro. Lui ha voluto portarsi via l’affetto di tutti i suoi cari”. Lo disse Romano Augusto Garattini, pensionato di 80 anni, padre dell’uomo che atterrito dalla povertà, sterminò la famiglia a Collegno e poi si uccise in modo estremamente cruento, dilaniandosi il torace con una decina di coltellate. Il 2014 si aprì così e la successiva catena di suicidi eclatanti aprì nei mesi successivi una riflessione sulla felicità e la povertà. La crisi non sta facendo altro che accelerare qualcosa che sta già avvenendo: l’umanità sarà sempre più depressa e io direi più infelice.
Forse perché la postmodernità tecnoliquida ci immerge in connessioni continue, ma ci fa sempre più soli? Forse perché l’eccesso di individualismo, sostenuto da un narcisismo autoreferenziato senza pari, sta facendo saltare la solidarietà e la vicinanza fra le persone? Forse perché una competizione esasperata non può che accentuare le debolezze individuali? Forse perché una eccessiva velocità rende tutto troppo superficiale? In fondo però lo sappiamo: qualcosa non funziona. Lo avvertiamo dall’incremento del disagio psichico, dal sempre più pressante senso di smarrimento dell’uomo tecnoliquido, dalla ricerca affannosa di vie brevi e immediate per la felicità, dall’aumento del consumo di alcol e di stupefacenti negli stessi opulenti ragazzi della società di Facebook, dall’affermarsi di una cupa cultura della morte, dall’inquietante incremento dei suicidi, dal malessere diffuso.
Qualcosa dunque non funziona sia a livello individuale che sociorelazionale: la liquidità dell’identità, con tutte le sue conseguenze, non aumenta il senso di felicità dell’uomo contemporaneo. Alcuni studi sul benessere fanno osservare che la felicità non è correlata con l’incremento delle possibilità di scelta. Questi dati fanno saltare una convinzione che sembrava imbattibile. La felicità dunque non è correlata con l’incremento delle possibili scelte dell’uomo, ma gli stessi studi correlano la felicità con il possedere invece un “criterio” per scegliere. Avere un criterio per scegliere rimanda ad altro: avere un progetto, delle idee, una identità. Ed ecco che il cerchio si chiude: il tema della postmodernità attuale è sostanzialmente il tema della rinuncia ad avere criteri (cioè dimensioni di senso ben definite). Ma questa rinuncia ha un prezzo: l’infelicità. Tutti questi dati, che sembrano preludere ad un incremento dell’infelicità, del malessere e della fragilità, ci impongono una riflessione più profonda, che può essere riassunta in una domanda: che società stiamo decostruendo e ricostruendo in tempo di crisi? Quale è la qualità umana della nostra società? Forse dovremmo riscoprire l’armonico ritmo dei più deboli, come autentico fondamento di una società nuova. E in definitiva se fosse proprio la riscoperta del ritmo dei più deboli e degli ultimi a salvare il mondo consentendo il ritorno dell’umano nella sua pienezza?