Come ampiamente previsto, il 2015 si sta confermando anno di svolta nella politica continentale. Non certo per un’accresciuta “coscienza europea” (volontà di serrare i ranghi di fronte all’era globale, con le sue sfide globali) o per un rilancio del processo di integrazione. Al contrario, la svolta sembra piuttosto generata da una rimonta delle identità nazionali, o meglio dei nazionalismi, rispetto ai timori generati da quanto avviene sullo scacchiere mondiale: prima la crisi economica, quindi gli inarrestabili flussi migratori in cammino verso l’Europa, senza trascurare le paure generate dall’esercito dell’Isis e dall’instabilità politica di gran parte di Africa e Medio Oriente (a loro volta tra le cause dell’emergenza-profughi). Così, nella decina o poco più di tornate elettorali registrate quest’anno all’interno dei confini Ue, oppure alle soglie dell’Unione, si è palesata una tendenza divergente: si è quasi sempre trattato, infatti, di elezioni a sfondo identitario-nazionale (con prevalenza degli interessi “interni”), eppure tutte – anche quelle dei Paesi più piccoli – hanno ottenuto un’attenzione su scala europea.
Grecia, Francia, Danimarca… È accaduto per le due tornate legislative in Grecia (gennaio e settembre) così come per il referendum svoltosi a luglio nella penisola ellenica sul piano di “salvataggio” finanziario proposto dall’Ue al governo di Atene. Di nuovo è successo a marzo per le politiche in Estonia e, più ancora, per le amministrative in Francia e Paesi Bassi (per misurare la presa sugli elettori da parte dei partiti euroscettici capitanati rispettivamente da Marine Le Pen e da Geert Wilders). Stesso discorso – elezioni nazionali, risonanza europea – per il voto parlamentare in Finlandia (aprile), nel Regno Unito (maggio, con la netta vittoria dei conservatori di David Cameron), in Danimarca (settembre) e in Portogallo (inizio ottobre). Persino il voto regionale della Catalogna, trasformato ad arte in una sorta di referendum sulla secessione dalla Spagna, ha avuto un rilievo internazionale.
La svolta polacca. A maggior ragione il doppio ricorso ai seggi in Polonia – presidenziali a giugno, legislative il 25 ottobre – ha assunto un peso politico che ha scavalcato i confini nazionali. La sterzata euroscettica e nazionalista operata dal popolo polacco – della quale ovviamente si prende atto con massimo rispetto in quanto liberamente e democraticamente operata da un popolo sovrano – ha avuto risonanza a Strasburgo (dove in questi giorni è convocata la plenaria dell’Europarlamento), a Bruxelles (sede della Commissione e del Consiglio europeo), e in tutte le capitali dei Paesi aderenti. La Polonia è il sesto Paese per peso demografico e rilevanza economica nel quadro comunitario, e una sua eventuale posizione frenante nelle decisioni Ue potrebbe rendere ancora più accidentato il cammino dei Ventotto.
Erdogan, nemico-amico. In un quadro di attenzione anche ai Paesi confinanti, i riflettori sono stati rivolti sulle elezioni in Svizzera (trionfo della destra populista e anti-immigrati), e su quelle locali in Ucraina, per verificare la tenuta politica complessiva del presidente Petro Poroshenko e la sua capacità di tener unito il Paese rispetto alle pressioni esterne provenienti da Mosca. Occhi puntati, a maggior ragione, sulla Turchia, chiamata alle elezioni il 1° novembre. Formalmente il grande Paese euroasiatico non fa parte dell’Unione, cui è candidato sin dagli anni Sessanta. Ma in queste settimane è stata proprio l’Ue a rendersi conto del ruolo strategico di Ankara nel tentativo di tamponare l’afflusso migratorio dal Medio Oriente verso la Grecia e i Balcani e, da lì, fino all’Europa centro-settentrionale. Così la tenuta politica di Recep Tayyp Erdogan, che più volte l’Ue ha giustamente bollato come un leader autoritario e non pienamente democratico, viene ora considerata con occhi diversi in vari ambienti europei.
Da Madrid a Londra. Proiettandosi in avanti, già si respira aria di duello in Spagna, dove si voterà il 20 dicembre. Alla corsa elettorale prenderanno parte i partiti tradizionali (i Popolari, al governo con Mariano Rajoy, in buona posizione nei sondaggi, e gli eterni rivali Socialisti), sfidati in campo aperto dalle nuove formazioni sorte “dalla piazza”, ovvero Podemos e Ciudadanos. Anche qui, come negli altri Paesi, si dovrà fare i conti con alcuni elementi ricorrenti: elettori in calo, euroscetticismo strisciante, nazionalismo o regionalismi in agguato, confronti tra i candidati che si concentrano su pochi temi, e in particolari sulla paura di una “invasione straniera” e sulle ricadute occupazionali della crisi economica, non ancora alle spalle. Migranti e interessi economici nazionali che hanno spinto il premier inglese Cameron a promettere il referendum sulla permanenza britannica nell’Unione europea. Voto popolare, questo, fissato al 2017 che già ora surriscalda Londra e le istituzioni Ue.
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