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Gli attentati di Parigi obbligano a una risposta ferma, senza cadere nel tranello dei terroristi

Di Gianni Borsa

Aux armes, citoyens. Formez vos bataillons. Marchons, marchons! Qu’un sang impur abreuve nos sillons!”. Mentre defluiscono dallo Stade de France, dove si erano recati per assistere a una partita amichevole con la Germania, i tifosi dei “Bleus” intonano la Marsigliese. I parigini nella tarda serata di ieri si sono subito accorti del clima di terrore diffusosi in città, e in tutta la Francia, per gli attentati al Bataclan e ad altri luoghi di divertimento e di socializzazione nel centro della capitale.
Così l’inno nazionale cantato a squarciagola è una sorta di antidoto collettivo alla paura, più che la chiamata alle armi suggerita dal canto della Rivoluzione.
Ma è anche un segnale forte: siamo uniti, contro il male, contro gli assassini, contro chi viola la democrazia, attaccando cittadini inermi assieme ai valori di un popolo, di un continente.
L’Europa è sotto attacco, commentano oggi politici e giornali di ogni Paese. In realtà sotto la minaccia del fanatismo e della violenza fine a se stessi è il mondo intero. E mentre la memoria torna all’11 settembre americano – col quale il parallelismo appare evidente –, sfila il lungo elenco di attentati con i quali l’Europa nel suo insieme è stata profondamente ferita: Madrid 2004, Londra 2005, fino ai più recenti Bruxelles (2014), ancora Parigi (Charlie Hebdo, 7 gennaio 2015), Copenaghen (14 febbraio).
Il presidente francese François Hollande dichiara lo stato d’emergenza e blocca i confini del Paese per proteggere i suoi concittadini. Una decisione comprensibile, anche se rischia di essere il preludio di ulteriori chiusure da parte di altri Stati, dopo quelle già decise da alcune capitali in relazione ai flussi di rifugiati in fuga dalla fame e dalle guerre in Africa e Medio Oriente.
In realtà il mondo non ha più confini: è una caratteristica dell’era globale, della quale sperimentiamo benefici incalcolabili ma anche novità ancora ingestibili, che spaventano le persone comuni, le opinioni pubbliche, i governi.
Come reagire? Anzitutto confermando l’unità di chi crede alla libertà, alla democrazia, al valore assoluto e primario – mai negabile, mai barattabile – della vita umana. In secondo luogo rafforzando i legami virtuosi tra i popoli e le rispettive autorità liberamente scelte mediante processi democratici. Terzo, esprimendo incondizionata, e se occorre, concreta solidarietà a chi oggi – la Francia – è nel mirino di assassini senza scrupoli. Quindi – quarto elemento – disponendo solide contromisure per prevenire, per quanto possibile, nuovi attentati e fatti di sangue, pur considerando questa un’operazione assai complessa, perché appare veramente arduo proteggere ogni angolo d’Europa e del mondo (dalle istituzioni pubbliche alle piazze, dalle stazioni ferroviarie agli aerei, dalle chiese alle moschee, dalle scuole ai parchi giochi, dai bar agli stadi), dove i terroristi possono colpire senza alcun prevedibile disegno.
Restano sul tappeto impegni comuni per la civiltà e interrogativi cui occorrerà imbastire presto una risposta convincente.
Occorre infatti una reazione forte e decisa alla violenza: necessaria tanto nelle città europee quanto nelle regioni in cui imperversa l’Isis, sia in Medio Oriente che in Libia e in ogni altro angolo del pianeta in cui forze organizzate e ben armate mettono in pericolo l’esistenza umana e la convivenza pacifica. Condizioni basilari, queste, per lo sviluppo, la promozione della giustizia, i diritti fondamentali di ogni persona, sia essa europea o asiatica, africana o americana, di qualunque etnia, fede, cultura…
È ugualmente necessario far chiarezza attorno agli attentati di Parigi, così pure sulle responsabilità di chi alimenta l’odio in Siria come in Terra Santa, a Tunisi come in Ucraina: perché ogni barbarie va condannata, senza creare, però, confusione nell’animo delle persone. I morti di Parigi pesano infatti sulla coscienza di terroristi inumani, che nulla hanno a che spartire con una matrice politica o con un credo religioso. Fanatismo, fondamentalismo e omicidi non fanno parte delle culture moderne e democratiche né sono inscritte in alcuna grande religione. E chi già oggi urla sguaiatamente contro l’islam o contro i migranti fa solo il gioco dei violenti e ad essi si associa colpevolmente nella strumentalizzazione dell’odio.
La risposta ai morti di Parigi, a quelli di New York, di Damasco o di Gerusalemme, non può che giungere da una condivisa, motivata, ferma reazione comune, che metta insieme le autorità nazionali con le istituzioni sovranazionali; rimotivando al contempo i popoli al valore della pace, alla cultura democratica, al rispetto reciproco, alla solidarietà, alla tutela dei più indifesi, alla promozione della libertà. Di certo le comunità religiose del mondo intero – e tra esse in prima fila la Chiesa cattolica con Papa Francesco – faranno la loro insostituibile parte.

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