La “peculiarità più evidente” della comunicazione di Bergoglio, ha detto Viganò, “sembra essere un’immediatezza che nessuno dei suoi predecessori – neanche lo stesso Giovanni Paolo II, che in questo fu comunque maestro – riuscirono ad avere. Quella di Francesco è una riprogrammazione dell’approccio relazionale che rimette il primato di Pietro nel circuito della Chiesa, qualificandolo come fermento e non (solo) come riferimento fondante. È qualcosa di più della semplice adozione di linguaggi, stili, gesti semplici e feriali, che pure sono quotidianamente oggetto di attenzione mediatica”.
In Francesco, ha rimarcato Viganò, “chiarezza, sobrietà e amore si accostano alla triade della condivisione che si fa dono, del dialogo che si fa anche (e anzitutto) ascolto, della globalità che si fa universalità (‘cattolicità’) senza frontiere”. Dunque, “la parola d’ordine è prossimità: ed è qui che riluce l’eredità conciliare. L’attenzione all’umano diviene infatti traccia di un annuncio fecondo: non semplice ‘preparazione’ evangelica, ma Vangelo essa stessa. L’uomo vivente – tutto l’uomo, dal cuore alle periferie – dà gloria al Dio vivente. L’antropologia offre così il più connaturale degli accessi pastorali: libera le identità; ricompone le masse in assemblee, e le assemblee in comunità; dice Dio dicendo l’uomo; unisce verità e carità, passando attraverso la via obbligata della misericordia”.
Secondo il prefetto, “questa lezione va senz’altro oltre la stessa persona di Bergoglio, che pure ne è testimone autorevole e credibile. Con uno sguardo retrospettivo, si può senz’altro dire che Inter Mirifica, e con esso il Concilio nella sua completezza, hanno avuto una posterità più feconda di quanto potessero promettere. Ogni atto di prossimità, dalla carezza a un disabile al sacrificio della vita per un altro, ne è in un certo senso erede, voce, comunicazione autentica”.