Tutto fermo, però… si potrebbe sintetizzare. Ovvero, va bene il letargo, ma come la mettiamo con il risveglio. Il rapporto del Censis resta in chiaroscuro, com’è peraltro consuetudine per questa occasione tradizionale di riflessione, in particolare nei lunghi anni ormai di una crisi che in realtà è una nuova epoca. Perché questo è il vero punto. In realtà parlare, come continuiamo a fare, di “crisi” e di “ripresa”, è un esercizio retorico: entrambi i termini continuamente sfuggono di mano. Nulla ormai è più uguale dal 2007-2008. Bene allora il “letargo”, come metafora del modo che la grande massa degli italiani ha adottato per affrontare questa nuova epoca, limitando i danni. E allora, piuttosto che arrovellarci sui decimali, appassionarci allo “zero virgola”, mentre questo letargo per la gran massa prosegue, può essere utile cercare di mettere in fila qualche ragionamento a proposito del “risveglio”.
Con una premessa.
Questo risveglio già si profila come selettivo, sia nella sua articolazione territoriale che in quella sociale.
E’ una questione che bisognerà pur porsi, definendo nello stesso tempo i modi per intervenire in modo nuovo, coerentemente con il quadro che si va delineando e non con le ricette del secolo scorso.
I processi economici, sociali e culturali infatti disegnano reti, già annunciate e presenti alla fine del secolo, ma che ormai diventano visibili anche a livello di massa, reti sovranazionali, o globali. Intorno a queste e in particolare ai nodi che emergono si disegnano tanto le nuove diseguaglianze che le nuove opportunità, in una sempre più evidente connessione – al di là di un apparente strabismo – tra le dimensione micro e quella macro, che tra loro non sono in conflitto, ma finiscono con l’alimentasi vicendevolmente.
In realtà da sempre questi due punti di vista strutturalmente caratterizzano la condizione dell’Italia e degli italiani, sul lungo periodo della storia. Come è tradizionale la difficoltà di tenere insieme queste prospettive e garantire una finalità e una modalità cooperativa. Serve lo sguardo lungo. E questo è propriamente il compito delle istituzioni e del sistema educativo e formativo. Che sono stati investiti da un continuo di riforme che hanno accresciuto un senso di instabilità e di disorientamento e dunque scontano in Italia una debolezza e una crisi di fiducia ormai strutturali.
Forse il dibattito sull’identità che è prepotentemente riesploso in queste settimane, se opportunamente sostenuto, può aiutare. Così come può essere utile dare la parola all’attuale generazione di giovani, gli under trenta che hanno vissuto sulla loro pelle questa grande trasformazione, una generazione bilingue, formatasi attraverso la crisi, non ancora disillusa e portatrice di un nuovo e positivo intransigentismo, cooperativo e meritocratico insieme, che taglia corto con le retoriche e non ha paura di dichiarare la propria identità.
Perché, come ha detto Papa Francesco, cambiare il modello di sviluppo e dunque, per restare nella metafora del Censis, risvegliarsi è possibile, ma lo si può fare solo con interpreti di qualità.